LE
ATTUALI RIFLESSIONI DELLA CANONISTICA SULLE PRELATURE PERSONALI: SUGGERIMENTI
PER UN APPROFONDIMENTO REALISTICO*
Eduardo Baura
Sommario: 1. Premessa.— 2. L’origine delle
prelature personali.— 3. La codificazione e le prelature
personali.— 4. La discussione dottrinale.— 5 La necessità di
chiarire alcuni profili giuridici sostanziali della prelatura dell'Opus
Dei.— 6. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
In determinati ambienti della canonistica
il tema delle prelature personali ha suscitato un grande interesse: a partire
dal 1979, e soprattutto dopo il 1983, in seguito alla promulgazione del Codice
e all’erezione della prelatura dell'Opus Dei, si è venuta a creare una vasta
produzione letteraria intorno alla natura canonica di questo tipo di ente
ecclesiastico. Penso che gli anni trascorsi dai primi tentativi dottrinali
permettano di rilevare sulle prime un’osservazione di carattere generale, pur
con i limiti di questo tipo di generalizzazioni.
Si può, infatti, constatare come un tema
così specifico quale quello delle prelature personali abbia comportato un
maggiore approfondimento di alcune questioni connesse a questa particolare
fattispecie come: chiesa particolare e circoscrizioni ecclesiastiche;
successione di norme; coordinamento di giurisdizioni; natura della potestà
ecclesiastica ed altre. Tuttavia, si ha talvolta l’impressione che una parte
notevole della letteratura canonistica si sia concentrata su aspetti puntuali —
la cui portata giuridica è, a mio avviso, piuttosto scarsa (penso, ad esempio,
alle puntigliose disquisizioni circa il processo di stesura delle norme ed
altre questioni del genere) —, giungendo al risultato di una produzione
scientifica assai intricata.
Sulla base di questa considerazione, e con
la fiducia di interpretare bene l’obiettivo perseguito in questo incontro di
studio dedicato all’approfondimento della natura delle prelature personali,
prescinderò di realizzare un dettagliato resoconto dello status quaestionis dottrinale in materia di prelature personali[1], o di riscrivere ancora una volta il travagliato
percorso di alcuni documenti in causa, proponendomi, invece, di evidenziare il
come e il perché delle vicende che hanno portato al vigente assetto normativo
di questo tipo di ente ecclesiastico e allo stato presente della dottrina,
cercando di mettere in rapporto i dati normativi e dottrinali con gli aspetti
della vita della Chiesa che, a mio avviso, sono stati determinanti, limitando
quindi i richiami bibliografici e documentali a quelli imprescindibili per
raggiungere lo scopo prefissato.
2. L’origine
delle prelature personali
Come è noto, è stato l’ultimo Concilio
ecumenico ad introdurre nel diritto della Chiesa la figura delle prelature
personali; il decreto Presbyterorum
ordinis, al n. 10, infatti, additava come soluzione utile alle esigenze
pastorali ed apostoliche la creazione di seminari internazionali, peculiari
diocesi o prelature personali, e altre istituzioni del genere[2]. Dal tenore del richiamato passo conciliare non
emerge una figura perfettamente definita nei suoi profili giuridici
(«peculiares dioeceses vel praelaturae personales et alia huiusmodi»). Otto
mesi dopo la promulgazione del citato decreto, però, il Papa Paolo VI, emanò il
m. pr. Ecclesiae Sanctae, di
attuazione di alcuni orientamenti conciliari, il quale non solo rendeva
possibile l’erezione di queste prelature, ma conteneva anche alcune
disposizioni che definivano esplicitamente i tratti giuridici del tipo ideato
di ente ecclesiastico[3]. Il m. pr., infatti, oltre a ripetere il
postulato conciliare (per favorire speciali iniziative pastorali o missionarie
possono essere erette dalla Sede Apostolica delle prelature personali),
stabiliva i seguenti principi: a) le
prelature sono composte di presbiteri del clero secolare; b) sono dotate di propri statuti; c) il prelato ha delle responsabilità nei confronti dei seminaristi
e dei sacerdoti della prelatura tipiche degli ordinari; d) i diritti degli ordinari locali vanno comunque rispettati, tra
l’altro mediante accordi di questi con il prelato e per mezzo del requisito di
sentire il parere delle conferenze episcopali interessate prima dell’erezione
di una prelatura personale; e) al
servizio della prelatura possono anche dedicarsi dei laici attraverso apposite
convenzioni.
Orbene, la previsione di un nuovo modello
di ente ecclesiastico non può nascere dal nulla. Perciò, un’indagine realista
non può fermarsi all’analisi dei testi normativi, ma deve chiedersi quale tipo
di ente abbia potuto ispirare il nuovo modello e, soprattutto, quali siano le
esigenze pastorali ed apostoliche a cui la nuova figura intende far fronte.
Naturalmente, il quesito è già stato studiato[4]; tuttavia penso che valga la pena rammentare
ancora in modo sintetico alcune disposizioni canoniche nonché certi fenomeni
pastorali dell’immediato pre-Concilio che preconizzano in qualche modo la
figura delle prelature personali, per porsi una delle questioni fondamentali
che sta implicitamente alla base del dibattito in esame — e che, a mio
avviso, non è stata sufficientemente considerata, almeno in questi termini
—, e cioè, quale sia la connessione di questi fenomeni con la prima
prelatura personale eretta.
In primo luogo è da segnalare la presenza
di alcuni uffici ecclesiastici — talvolta aventi vera giurisdizione
— delimitati secondo un criterio personale, istituiti in questo secolo
mediante provvedimenti singolari, nonostante il principio territorialista
sancito nel Codice del 1917. Così, dal 1930 fino alla celebrazione del Concilio
furono eretti degli ordinariati per tutti i fedeli orientali (indipendentemente
dal rito o dalla chiesa sui iuris di
appartenenza) dimoranti in un Paese dove la gerarchia orientale non fosse
organizzata, a capo dei quali veniva preposto il vescovo diocesano della
capitale della nazione, a cui veniva concessa di regola una giurisdizione
cumulativa con quella degli ordinari locali[5]; ci si trova così dinanzi a delle giurisdizioni
delimitate mediante un criterio personale, che non formano una chiesa rituale e
i cui fedeli sono il più delle volte sottoposti contemporaneamente alla
giurisdizione locale.
Oltre agli specifici sviluppi
organizzativi per motivi di rito, altre circostanze speciali verificatesi in
questo secolo — la presenza di profughi e di alcuni gruppi di migranti
— hanno domandato provvedimenti singolari, i quali, pur senza sostegno
alcuno in una norma generale, hanno costituito degli uffici ecclesiastici di
carattere provvisorio implicanti una giurisdizione personale più o meno piena,
sebbene non si sia arrivati all’erezione di un ente stabile[6].
Il settore della mobilità umana ha sempre
presentato, infatti, in linee generali delle particolari esigenze sul piano
pastorale, in quanto ha richiesto una peculiare opera pastorale — occorre
un clero conoscitore di lingue, di mentalità, disposto ad accompagnare i fedeli
laddove si trovano — e una peculiare organizzazione ecclesiastica, capace
di coordinare il ministero dei presbiteri operanti in più diocesi[7]. Dinanzi, dunque, alla necessità di contare su di
un clero specializzato, nonché di evitare un afflusso disordinato di presbiteri
all’estero, non sempre mossi da motivi ministeriali, la Santa Sede, specie a
partire dalla fine dell’800, tese a centralizzare a suo favore le competenze
sul clero migrante, sottraendole ai vescovi a
quo e ad quem, e appoggiandosi
sul clero religioso, specie su quello degli ordini dedicati alle missioni con i
migranti. Questa tendenza sbocciò nella cost. ap. Exsul Familia, del 1° agosto 1952[8], con cui Pio XII organizzò la pastorale con i
migranti e i marittimi, in base alla presenza di cappellani specializzati e
muniti di speciali facoltà dalla Sede Apostolica, sottoposti all’autorità del
luogo, ma organizzati secondo un’unità di direzione a capo della quale erano
costituiti alcuni uffici ecclesiastici che, pur privi di giurisdizione,
dovevano svolgere di fatto mansioni proprie della direzione dei cappellani[9]. In altre parole, la Exsul Familia tentò di promuovere una peculiare pastorale, dotandola
di una certa unità di direzione della vita e dell’opera svolta dai cappellani,
facente leva sulla potestà della Santa Sede, ma volle rispettare al contempo il
limite del principio territorialista del Codice del 1917, il quale non
prevedeva la costituzione di enti giurisdizionali personali[10].
Il pontificato di Pio XII fu, peraltro,
ricco di provvedimenti miranti a soddisfare speciali necessità pastorali,
talvolta anche al di là di quanto previsto dal diritto codificato[11]. Di particolare importanza fu la
decisione, sempre durante il pontificato di papa Pacelli, di far assurgere,
mediante l’Istruzione della S. Congregazione Concistoriale Sollemne semper, del 23 aprile 1951[12], alla categoria di enti “comuni”
dell’organizzazione della Chiesa quelli che allora erano chiamati vicariati
castrensi[13]. Con tale normativa generale, si
introdusse nel diritto della Chiesa la possibilità di costituire enti
ecclesiastici gerarchici delimitati secondo un criterio personale, i cui
prelati godevano di potestà cumulativa con quella degli ordinari locali[14].
Infine, costituisce anche per certi versi
un precedente delle prelature personali la Missione di Francia. Mossi dalla
preoccupazione di far fronte alla scristianizzazione della Francia, i vescovi
francesi istituirono nel 1941 un seminario nazionale volto a formare sacerdoti
con speciali capacità missionarie[15]. L’idea consisteva nell’inviare questi sacerdoti
al servizio delle diverse diocesi del Paese, sebbene dovessero restare in
qualche modo sotto l’autorità centrale per quel che concerneva la speciale formazione
e l’abilitazione ai concreti incarichi pastorali. Pio XII fece propria
l’iniziativa, dandole una forma giuridica consona al Codice del 1917, mediante
l’erezione di una prelatura nullius
con il territorio di una sola parrocchia (quella di Pontigny), la quale, in
conformità con il can. 319 § 2 del Codice allora in vigore, doveva avere una
legge propria, il che consentiva di adattare questa figura (la prelatura
territoriale) ad una realtà che andava ben oltre il territorio assegnato, con
una missione cioè sovradiocesana[16]. Come si può facilmente constatare, la soluzione
della prelatura territoriale non era
che una finzione giuridica.
Ebbene, l’elenco dei fenomeni ecclesiali
che hanno potuto influire sulla previsione del Presbyterorum ordinis, n. 10, sarebbe assai incompleto — e mi
sembra che più volte si sia caduti in questa incompletezza che denota a sua
volta un difetto di realismo — se non si menzionasse l’esistenza
dell’Opus Dei. Senza entrare ora nell’analisi della natura di detta
istituzione, va comunque ricordato che il suo fondatore, il beato Josemaría
Escrivà, prevedeva sin dai primi anni di vita di questo ente che si sarebbe
dovuta istituire una giurisdizione ecclesiastica personale, simile a quella di
cui godevano alcuni prelati incaricati dell’assistenza spirituale ai militari,
per poter rispondere alle necessità pastorali create appunto dall’Opus Dei[17]. Nel 1960, poi, mons. Escrivà avviò una
consultazione ufficiosa presso la Santa Sede per verificare se fosse possibile
adottare per l'Opus Dei una soluzione canonica analoga a quella presa per la
Missione di Francia[18] e il 7 gennaio 1962 elevò una richiesta formale
in tal senso[19]. Che poi l’esistenza dell'Opus Dei sia
stata presente nella mente dei redattori del Presbyterorum Ordinis è facilmente ipotizzabile dal momento che
proprio Del Portillo, divenuto in seguito primo successore del beato Escrivà
alla guida dell'Opus Dei, era il Segretario della Commissione De disciplina cleri et populi christiani,
incaricata di redigere il decreto in questione[20]. D’altronde, la figura della prelatura personale
si adattava perfettamente alla soluzione cercata da mons. Escrivà per l'Opus
Dei, come dimostra la sua reazione di contentezza dinanzi alla promulgazione
del decreto conciliare, prima, e del Ecclesiae
Sanctae poi[21]. Già nel 1969 (3 anni dopo la
promulgazione del m. pr. Ecclesiae
Sanctae) mons. Escrivà si rivolse ufficialmente alla Santa Sede dichiarando
che la soluzione giuridica dell'Opus Dei si trovava nella figura della
prelatura personale[22].
Ci si potrebbe però chiedere quali possano
essere gli elementi che accomunano precisamente l'Opus Dei con i fenomeni
pastorali sopra menzionati e se non sia piuttosto da annoverare tra altre
entità “apostoliche”. Ma proprio questo è uno dei punti fondamentali del mio
studio, che affronterò più avanti; ora basta accennare i fatti storici.
3. La
codificazione e le prelature personali
Il postulato del Presbyterorum ordinis non rimase inascoltato. Tanto è che uno dei
dieci principi di riforma del Codice, l’ottavo, si riferiva proprio
all’ammissione del criterio personale per la delimitazione delle giurisdizioni,
pur conservando come criterio abituale quello della territorialità[23]. Per quanto riguarda le prelature
personali, fino allo Schema del 1977 esse non furono oggetto di un trattamento
specifico, ma venivano semplicemente menzionate nei canoni dedicati alle chiese
particolari, per affermare che ad esse «in iure aequiparatur, nisi ex rei
natura aut iuris praescripto aliud appareat»[24]. Le prime obiezioni sollevate a siffatta
impostazione all’interno del processo redazionale emersero nella seduta del
corrispondente coetus studiorum del
10 marzo 1980, nella quale due Consultori sostennero che le prelature personali
dovevano essere trattate nel Titolo sulle associazioni, non potendo essere
equiparate alle chiese particolari[25]. Le obiezioni non furono accolte, sicché nello
Schema del 1980 si continuò a trattare delle prelature personali principalmente
in tre canoni, assieme alle altre circoscrizioni ecclesiastiche, equiparandole
giuridicamente alle diocesi[26].
Questo fu il progetto sottoposto alla
considerazione dei cardinali e vescovi membri della Plenaria della Pontificia
Commissione incaricata della revisione del Codice; il punto di riferimento nel
diritto allora vigente era costituito dal testo del m. pr. Ecclesiae Sanctae, I, 4. In seguito alle osservazioni inviate da
questi membri, la Segreteria della Pontificia Commissione preparò una Relatio in cui, tra tanti altri temi
esaminati, si dava notizia delle obiezioni poste ai canoni sulle prelature
personali e la risposta della stessa Segreteria che le respingeva[27]. La citata Relatio costituì la base delle discussioni avute durante l’ultima
riunione della Plenaria, tenutasi dal 20 al 29 ottobre del 1981, incaricata
quella volta di rivedere lo Schema del 1980[28]. Questa fase del processo riveste uno speciale
interesse perché segnò un cambiamento nella stesura dei canoni che fino allora
si prevedevano per le prelature personali e perché venne ampiamente discussa la
natura di questi enti. Vale la pena, dunque, soffermarsi, sia pure brevemente,
sugli argomenti addotti nelle osservazioni inviate alla Segreteria della
Commissione e durante la riunione, non tanto perché possa illuminare la voluntas legislatoris, ma perché rileva
delle difficoltà di comprensione di questa figura: difatti, molte delle
questioni controverse in quell’occasione sono state poi riproposte in dottrina.
Pur correndo il rischio di semplificare la
tematica discussa, tenterò di esporre, in stringata sintesi, le argomentazioni
addotte nella Plenaria, rimettendomi alla pubblicazione della Relatio e degli atti della riunione per
maggiori informazioni. Le critiche principali mosse alla redazione dello Schema
del 1980 furono le seguenti: a) non
si rispetterebbe il principio di territorialità; b) le giurisdizioni personali costituirebbero un pericolo riguardo
ai diritti degli Ordinari locali; c)
l’accostamento delle prelature personali alle chiese particolari sarebbe
contrario a quanto previsto dal m. pr. Ecclesiae
Sanctae, il quale considererebbe le prelature personali come unità
amministrative per la distribuzione del clero. La Segreteria della Commissione
rispose: a) il principio della
territorialità non è essenziale della chiesa particolare, benché esso,
comunque, debba rimanere e rimanga di fatto il criterio abituale di
delimitazione delle chiese particolari e quelle che ad esse si “assimilano”; b) le prelature personali non sono
“assimilate” alle chiese particolari ma vengono ad esse soltanto “equiparate”,
equiparazione che dipenderà dal contenuto degli statuti di ogni prelatura; c) la giurisdizione del prelato
personale non è piena ma cumulativa o mista e, comunque, salvando sempre i
diritti degli Ordinari locali.
A giudicare da siffatti ragionamenti,
sembra, dunque, che per la Segreteria esistesse chiaramente una differenza tra
le chiese particolari (il cui prototipo sarebbe la diocesi) e le comunità ad
esse assimilate (le circoscrizioni enumerate attualmente nel can. 368), per un
verso, e le prelature personali per l’altro, sebbene queste verrebbero comunque
equiparate alle chiese particolari, sennonché, da una parte, nello spiegare la
differenza sulla base dei distinti significati dei termini “assimilazione” ed
“equiparazione”, la differenza in questione rimaneva piuttosto oscura e,
dall’altra, al di là della quaestio
verborum, restava comunque il fatto che se qualcosa viene equiparata
giuridicamente sarà pur sempre perché esiste una base sostanziale comune che
permette lo stesso trattamento giuridico[29].
Ma, a mio avviso, l’obiezione principale
al testo del 1980 venne chiaramente formulata durante la riunione della
Plenaria — sebbene fosse già stata sostanzialmente sostenuta in dottrina
da Aymans[30] —, e consisteva nell’affermare che
il progetto presentava una figura giuridica di ente ecclesiastico confusa,
avente cioè l’indole di chiesa particolare e al contempo elementi di carattere
associativo, in quanto — si affermava — le prelature personali sono
anche «ad opera pastoralia vel missionalia extra
Praelaturam», il che suppone ammettere che uno diventa membro della
prelatura per volontaria intenzione (poiché vorrebbe compiere tali iniziative ad extra) e per volontaria accettazione
da parte del prelato, come succede nei fenomeni associativi, e mai — si
asseriva — nelle chiese particolari[31]. L’obiezione in parola non fu però espressamente
dibattuta, dal momento che i sostenitori dello Schema si concentrarono nel far
vedere come il Concilio avesse postulato la creazione di giurisdizioni
personali, il che non è contrario né all’essenza della chiesa particolare né ai
diritti degli Ordinari locali.
Al di là del giudizio che ci si possa
formare sulle argomentazioni, dell’uno e dell’altro senso, appena riportate, in
verità, chiunque si accosti ai lavori della Plenaria (avutasi nel 1981) della
Commissione dei cardinali e vescovi incaricati di dare un parere, da sottoporre
al Papa, sul progetto del Codice elaborato dai diversi coetus studiorum, non può che restare meravigliato dall’interesse
suscitato dal tema delle prelature personali, il quale provocò un vivace
dibattito tra i difensori dello Schema e quelli che propugnavano una nuova
redazione. Penso che tale fatto sia difficilmente comprensibile se non si tiene
conto delle circostanze del momento, e cioè del fatto che proprio nel 1981 si
trovava già in fase molto avanzata lo studio mirante ad erigere la prelatura
dell'Opus Dei[32], e, anzi, proprio questo dato
costituisce, a mio avviso, la chiave di volta per capire, se non tutti almeno
alcuni, termini del dibattito[33].
Tengo, però, a chiarire subito il senso di
questa mia affermazione. Durante le discussioni della Plenaria si avvertì, sì,
il rischio di portare obiezioni non al progetto dei canoni ma alla soluzione giuridica
prospettata per una concreta istituzione, ma venne negato che tale fosse
l’origine delle critiche sollevate al progetto[34]. A mio parere, tale negazione va interpretata, però,
nel senso che si escludeva l’esistenza di pregiudiziali nei confronti dell'Opus
Dei, oppure che si consideravano anche eventuali casi “analoghi”, ma ciò non
vieta di constatare la presenza dell’esempio concreto “che tutti conoscevano”[35], il quale, da una parte, non poteva non
costituire un punto di riferimento al momento di concepire i profili della
nuova figura e, dall’altra, rendeva il tema discusso in una questione di
notevole rilevanza pratica per la vita della Chiesa (per il caso stesso di
fattispecie e per altri eventuali “simili”), il che spiega l’interesse
suscitato. Non va dimenticato peraltro che l’arte legislativa mira ad ordinare
la realtà sociale, onde sarebbe stato non solo impossibile ma anche inopportuno,
sia dal punto di vista della prudenza di governo, sia della necessaria
sensibilità ecclesiale, non aver tenuto conto dell’eventualità dell’erezione
della prelatura dell'Opus Dei al momento di dettare la normativa su questa
nuova figura. E’, insomma, non solo giustificabile ma lodevole la condotta di
tutti coloro che si impegnarono nel dare la soluzione che ritenevano confacente
con il bene della Chiesa, tanto di chi pensava che le prelature personali,
l'Opus Dei compresa, si configuravano alla stregua delle chiese particolari e,
pertanto, occorreva difendere il progetto preparato dalla Commissione, quanto
di coloro che scorgevano nell’introduzione di un tipo nuovo di giurisdizione
ecclesiastica diverso dalla ordinaria organizzazione territoriale, e con essa in
qualche modo concorrente, un serio pericolo per la Chiesa.
Questo dato potrebbe forse illuminare
sulle cause e sulle modalità dei rilievi sollevati, specie di quello relativo
alla volontarietà tipica degli enti associativi, visto che tale caratteristica
non era tanto evidente nella regolamentazione che delle prelature personali
faceva l’Ecclesiae Sanctae e meno
ancora nella stesura dello Schema del 1980. Si potrebbe scorgere l’elemento
volontario nella figura tratteggiata dal m. pr. del 1966, soltanto se si
considera la possibilità della cooperazione volontaria di laici (ma tale possibilità non costituiva un elemento
necessario o essenziale del tipo di ente), a parte, ovviamente, la volontarietà
dei presbiteri di dedicarsi al servizio della prelatura eretta (come capita del
resto con qualunque iniziativa pastorale, anche nell’assunzione, per esempio,
di cappellani castrensi). La prospettiva dell’erezione dell’Opus Dei in
prelatura personale avrebbe potuto mettere in luce in modo più perspicuo questo
aspetto, poiché quest’istituzione poteva facilmente apparire esternamente come
un fenomeno di natura associativa, qualora fosse stato considerato l’intervento
della volontarietà al momento di entrarne a far parte, sicché, se essa veniva
effettivamente eretta in prelatura personale, significava che le prelature
personali sarebbero state enti di tipo associativo, ma, se si applicava lo
stesso la regolamentazione prevista nello Schema, questo ente (ed eventuali
altre istituzioni simili, di stampo associativo) sarebbe assurto alla categoria
(e “autonomia”) propria della chiesa particolare (costituendo, quindi, una
“chiesa parallela”). Ad avallare l’ipotesi che tale fosse lo schema di pensiero
sottostante, si trova il fatto che chi si opponeva allo Schema voleva distinguere
la figura delle prelature personali (diversa dalle chiese particolari) dai
“vicariati personali” (il cui modello sarebbero i vicariati castrensi), i quali
si assimilerebbero alle chiese particolari. Viceversa, chi sosteneva la
redazione dello Schema vedeva appunto nei vicariati castrensi l’esempio
classico di prelatura personale[36].
Furono, quindi, le questioni relative alla
qualifica teologica e canonica delle prelature personali l’oggetto delle
discussioni avute durante la riunione Plenaria del 1981, in seguito alla quale
il loro iter redazionale cambiò
rotta. Proseguendo, dunque, con la storia redazionale del Codice, è da
segnalare che, in seguito al voto di questa adunanza di segnare le differenze
delle prelature personali rispetto delle chiese particolari, venne creato nello
Schema novissimum un Titolo specifico
per le prelature personali (eliminando la menzione espressa alle “prelature
castrensi”), contenente quattro canoni ispirati all’Ecclesiae Sanctae, all’interno però della sezione relativa alle
chiese particolari, cioè nella II Parte del Libro II, dedicata alla
costituzione gerarchica della Chiesa[37]. Nella Commissione di tre cardinali e un vescovo,
istituita dal Papa per aiutarlo alla revisione dello Schema novissimum, si decise però all’ultimo momento di trasferire
il Titolo di recente creazione alla parte I del Libro II (rimarcando quindi le
differenze tra le prelature personali e le chiese particolari, ma rimanendo
quasi invariata la stesura dei relativi canoni), sebbene tale mutamento di
luogo non fosse stato direttamente propugnato dalla Plenaria[38]. Siffatta scelta sistematica è stata
all’origine di alcune perplessità dottrinali alle quali mi riferirò più avanti.
Se si tiene presente il postulato del
decreto conciliare Presbyterorum ordinis
di creare prelature personali, diocesi peculiari e alia huiusmodi, la dottrina contenuta nel Christus Dominus circa gli incarichi pastorali in favore di più chiese
particolari, e il fatto che uno dei dieci principi della riforma del Codice di
diritto canonico fosse proprio quello di favorire il criterio personale di
delimitazione delle giurisdizioni ecclesiastiche, si potrebbe rimanere alquanto
sorpresi della redazione finale del Codice del 1983[39], specie se si considera che il legislatore ha
dovuto emanare successivamente una norma extracodiciale per stabilire lo
statuto giuridico degli ordinariati castrensi. La sorpresa cresce nel constatare
che, dopo lo sforzo realizzato nel dibattito svolto durante l’elaborazione del
Codice, oltre a quella dell'Opus Dei, non è stata finora eretta nessun’altra
prelatura personale. Che l’esistenza dell'Opus Dei abbia influito nella
redazione dei documenti sembra fuori dubbio, ma non fino al punto di costituire
l’unico fenomeno pastorale richiedente una giurisdizione ecclesiastica
personale, come sopra rilevato. Negli ultimi anni sono stati eretti, sì,
diversi ordinariati militari, in modo che le necessità pastorali sorte dalle
peculiarità di vita di quello specifico ambiente vengono regolarmente risolte
sulla base della cost. ap. Spirituali
Militum Curae, ma rimangono gruppi umani ben determinati (emigranti,
marittimi, zingari, profughi), che non possono far leva sui mezzi giuridici ed
economici che hanno i militari, ma presentano anche delle esigenze pastorali
peculiari, sicché qualche volta è stata prospettata per loro la soluzione delle
prelature personali[40], ma di fatto si sono per ora cercate altre vie di
soluzione[41], senonché si rischia che tali necessità
pastorali non vengano convenientemente soddisfatte.
Naturalmente, è facile accorgersi degli
ostacoli che si possono presentare in pratica per erigere un ente
giurisdizionale personale — contare su di un clero specializzato, avere i
mezzi economici per il suo sostentamento, studiarne accuratamente lo statuto
giuridico e via discorrendo —, ma non è certo da escludere che la non
applicazione del postulato conciliare circa le giurisdizioni personali abbia
avuto tra i suoi motivi quello dell’incertezza legale e dottrinale in materia[42]. Se così fosse, sarebbe comprensibile la
riluttanza ad adottare misure la cui natura viene messa in discussione dalla
dottrina, ma occorrerebbe ricordare, a mio parere, da un lato, che le soluzioni
giuridiche ai casi concreti non avvengono necessariamente né solitamente
attraverso l’applicazione di schemi concettuali aprioristici, e, dall’altro,
che v’è il rischio di non trarre profitto di uno dei cammini aperti dall’ultimo
Concilio ecumenico, né di attuare uno dei principi della riforma del diritto
codificato, miranti a soddisfare meglio le odierne necessità pastorali[43].
4. La
discussione dottrinale
Per quanto riguarda l’accoglienza della
normativa codiciale sulle prelature personali in sede scientifica, si può
constatare che si è venuto via via creando un dibattito che ha diviso la
dottrina, da una parte, in coloro che affermano la natura associativa delle
prelature personali (perché vi si appartiene volontariamente e perché sono enti
con una finalità specifica) e coloro invece che ritengono che esse siano,
appunto, prelature, e cioè facciano parte dell’organizzazione gerarchica della
Chiesa, e, dall’altra, in quegli autori che sostengono che le prelature
personali siano composte di soli chierici (benché i laici possano cooperare, ma
esternamente) e gli altri che vedono nelle prelature personali enti comunitari
gerarchicamente strutturati (formati da prelato, presbiterio e popolo), pur
ammettendo solitamente la tesi secondo cui questi enti non costituirebbero
chiese particolari in senso stretto[44].
Evidentemente, non è possibile analizzare
le diverse argomentazioni fornite dalle diverse posizioni dottrinali nei limiti
di un breve lavoro teso soltanto ad individuare le cause del dibattito. Vorrei
però manifestare, sia pure per cenni, alcune difficoltà che presentano certe interpretazioni,
a mio giudizio eccessivamente attaccate al testo legale, sotto il profilo della
stessa interpretazione testuale. Innanzitutto, coloro che credono di trovare
nel luogo sistematico occupato dalle prelature personali all’interno del Codice
sostegno alla tesi secondo cui questi enti sarebbero di carattere associativo,
muovono dalla convinzione che la posizione sistematica possa essere illuminante
per l’interpretazione di un determinato istituto giuridico (a rubro ad nigrum valet illatio), ma si tratta
pur sempre di un criterio ermeneutico assai relativo, per nulla definitivo,
specie quando si constata che il contenuto della norma non si adatta del tutto
al luogo sistematico assegnato (per
nigrum derogari potest rubro)[45]. Ritengo che quest’ultimo si verifichi nel caso
delle prelature personali, poiché, malgrado questa figura non venga contemplata
nella Parte intitolata «De Ecclesiae constitutione hierarchica», il can. 295 §
1 afferma che alla prelatura personale «praeficitur Praelatus ut Ordinarius
proprius»[46]. Del resto è evidente che il fatto che i
cann. 294 a 297 si trovino tra il Titolo che tratta dei chierici e quello sulle
associazioni dei fedeli non comporta necessariamente che le prelature personali
siano organismi clericali e/o associazioni: possono non essere né l’uno né
l’altro.
Quanto alla tesi di coloro che vedono
nelle prelature personali degli enti esclusivamente clericali sulla base
dell’inciso spiegativo del can. 294 («praelaturae personales quae presbyteris
et diaconis cleri saecularis constent»), si potrebbe obiettare, sempre
dall’incompleto punto di vista esegetico, che una prelatura personale deve
essere innanzitutto una prelatura,
cioè l’ambito di giurisdizione (e di azione pastorale) di un prelato, vale a
dire una circoscrizione ecclesiastica. E’ evidente che quando il Concilio ha
parlato di prelature personali («peculiares dioeceses vel praelaturae personales») non poteva non pensare che a
prelature. L’appellativo “personale” rafforza ancora l’idea di prelatura: si
dice “personale” per contrapposizione con quella territoriale, per indicare,
cioè, che la prelatura (la circoscrizione, la giurisdizione del prelato) viene
delimitata mediante un criterio personale. Se le prelature personali fossero
soltanto enti clericali non si comprende perché mai si aggiunge l’aggettivo
“personale”. Né si vede come si possa conciliare l’idea di una prelatura
personale concepita come mero organismo di distribuzione del clero con il fatto
che i sacerdoti vi si possano incardinare con il titolo di «servizio alla prelatura» (can. 295 § 1).
Desta anche qualche perplessità
l’argomentazione secondo cui questo tipo di enti sarebbero formati da soli
chierici perché il can. 296, nel riferirsi alle convenzione che i fedeli laici
possono stabilire con le prelature personali, non parla dell’incorporazione dei
laici alle prelature ma solo della loro «cooperazione organica». A parte il
fatto che non si vede perché, sotto il profilo testuale, nell’espressione
“cooperazione” (per di più “organica”) non possa rientrare anche la possibilità
dell’incorporazione, occorre asserire che l’appartenenza dei laici ad una
prelatura non dipenderà solo da eventuali convenzioni (elemento non essenziale
né esclusivo delle prelature personali), ma dalla loro condizione di far parte
del fenomeno e delle necessità pastorali che sono alla base della prelatura. E
conviene ricordare che la situazione dei fedeli bisognosi di una peculiare
attenzione pastorale non può essere vista come se questi cristiani fossero meri
destinatari di un’azione pastorale, ma quali membri vivi della Chiesa, alla cui
missione tutti i battezzati sono chiamati a partecipare e, quindi, quali
soggetti attivi degli enti ecclesiastici a cui afferiscono.
Al di là di questi ed altri possibili
rilievi ermeneutici che si potrebbero muovere, ritengo che le problematiche
discusse in dottrina in realtà richiamino a loro volta l’approfondimento di
questioni di grande rilievo sul piano teorico, quali sono, per esempio: la
natura della potestà giuridica della Gerarchia e la libertà dei fedeli;
l’appartenenza simultanea a più porzioni del Popolo di Dio e la giurisdizione
cumulativa; la possibilità o meno di creare enti di mera incardinazione di
sacerdoti secolari in cui essi non abbiano però una responsabilità pastorale
determinata; la qualifica teologica degli enti comunitari gerarchicamente
strutturati; e, soprattutto, la possibilità che i fedeli, senza in nulla mutare
la loro condizione canonica di fedeli comuni, assumano liberamente degli
impegni giuridici nei confronti di una giurisdizione ecclesiastica, rimanendo
quindi ad essa sottomessi[47].
Poiché non è il caso di affrontare in
questa sede le menzionate tematiche, mi limiterò a mettere in risalto soltanto
un’osservazione, e cioè che la discussione come viene spesso impostata potrebbe
difettare di realismo: si discute su che cosa siano le prelature personali, al
plurale, quando sino a questo momento ce ne una sola. Intendo avvertire sul
pericolo di muovere il discorso non solo su un piano teorico — come è
giusto in sede scientifica —, ma anche troppo distaccato dalla vita della
Chiesa, concentrando l’attenzione su quale sia il modello ideato dal
legislatore nel testo codiciale, il che di per sé è, ovviamente, un
interrogativo legittimo e necessario, senonché, se si rimane in questo punto e
non ci si interroga sulla realtà, si rischia di cadere in una visione riduttiva
del diritto di stampo normativista. Peraltro, talvolta è possibile riscontrare
qualche impostazione dottrinale in materia che sembra addirittura rispondere
(forse in maniera inconscia da parte degli autori che la seguono) ad uno schema
di pensiero di taglio idealistico, in forza del quale non solo si giudica
possibile che il legislatore umano sia capace di determinare tutta la realtà, e
non piuttosto che sia la natura delle cose a fissare le possibilità di scelte
della legge, ma anche si tende ad esigere che le soluzioni giuridiche
rispondano agli schemi aprioristicamente elaborati, anziché riflettere
scientificamente sulle concrete soluzioni giuridiche (giuste) fornite (o che si
possono fornire) alle necessità pastorali reali[48].
Su questa linea di pensiero si muovono
coloro che pretendono di poter approfondire la natura delle prelature personali
sulla base dell’analisi dei testi prescindendo dalla considerazione della
realtà della prelatura dell'Opus Dei, talvolta con la buona volontà di non
incidere nella vita altrui, ma, così facendo, privilegiano la loro personale
interpretazione dei testi normativi rispetto dell’applicazione della legge
operata dallo stesso legislatore, anzi danno maggiore rilievo ai dati emergenti
in fase consultiva, che di per sé non hanno valore normativo, che agli sviluppi
della vita giuridica della Chiesa.
Altri autori si spingono oltre e, nel
constatare la contrapposizione tra le loro conclusioni e le norme relative alla
prelatura dell'Opus Dei, giungono ad affermare espressamente che l’unica
prelatura personale finora eretta non risponda al modello tratteggiato dal
Codice[49]; tuttavia, se si riflette sul fatto che,
come sopra evidenziato, la prospettiva dell’erezione della prelatura dell'Opus
Dei era presente nella mente dei redattori del Codice e che, anzi, essa ne ha
probabilmente condizionato la stesura finale, si giunge alla convinzione che
alla base di siffatto paradosso debba necessariamente esserci qualche elemento
che ha viziato nella radice la comprensione di questo tipo di enti.
Stando, infatti, all’analisi della genesi
della redazione codiciale sopra esposta e alla discussione dottrinale
posteriore, sembra che alcuni abbiano ragionato in questa maniera: poiché
l'Opus Dei sta per diventare prelatura personale, le prelature personali sono
quello che l'Opus Dei è, e l'Opus Dei è essenzialmente, non un istituto
secolare, visto che si tratta appunto di trovare un’altra configurazione
giuridica adatta alla sostanza del fenomeno, ma un ente dello stesso genere,
cioè, della categoria degli enti associativi. Così ragionando, si è cercato di
accostare, per quanto possibile, la figura delle prelature personali ad un
modello di ente di carattere associativo, allontanandola dal paragone con le
chiese particolari, onde la necessità di dare agli ordinariati militari una
regolamentazione extracodiciale ed autonoma rispetto a questo tipo di
prelature. Senonché, oltre alle difficoltà sopra evidenziate di
un’interpretazione dei canoni codiciali sulle prelature personali in questo
senso (difficoltà sorte dall’origine stessa delle prelature), si ravvisa ora
che proprio la configurazione giuridica della prelatura dell'Opus Dei,
determinata legalmente dalla cost. ap. Ut
sit e dagli Statuti, e il suo assetto comunitario rispondono precisamente
ad un modello di prelatura personale simile agli ordinariati castrensi, anziché
ad altre concezioni delle prelature personali. Nel constatare questo fatto,
invece di riesaminare la propria interpretazione (ipotizzando che l’Opus Dei
potesse essere un fenomeno pastorale suscettibile di essere configurato come
una prelatura personale analoga agli ordinariati militari e che la figura delle
prelature personali potesse venir interpretata in questo modo), si conclude con
l’incompatibilità del diritto statutario della prelatura dell'Opus Dei con il
testo del Codice (meglio sarebbe dire con una determinata lettura del Codice
avallata da alcune opinioni espresse nella fase consultiva dell’elaborazione
del Codice).
Al di là del parere che possa suscitare il
paradosso ora sollevato, emerge con chiarezza quanto risulti ineludibile
superare il discorso improntato al confronto di testi normativi e chiedersi,
invece, che cosa sia sostanzialmente
il fenomeno ecclesiale dell'Opus Dei, avvicinandosi, però, al tema con un
approccio diverso dall’analisi dei testi normativi attuali e passati. Ritengo,
insomma, che l’equivoca comprensione dell'Opus Dei — derivata da
un’analisi storica formale poco attenta alla sostanza del fenomeno ecclesiale e
da schemi di pensiero ancorati su visioni ecclesiologiche molto bene
sistematizzate ma forse insufficienti per spiegare la totalità del mistero
della Chiesa — sia stata la fonte delle esitazioni che hanno portato al
risultato già evidenziato.
5. La
necessità di chiarire alcuni profili giuridici sostanziali della prelatura
dell'Opus Dei
Esula da queste brevi riflessioni
l’offrire una considerazione completa della natura dell'Opus Dei e dei suoi
profili canonici essenziali. Mi limiterò a rilevare velocemente alcune esigenze
giuridiche derivate dalla natura stessa del fenomeno ecclesiale dell'Opus Dei,
le quali forse non sempre si sono presentate in modo sufficientemente chiaro,
perché oscurate dalle forme giuridiche inadeguate che l'Opus Dei ha dovuto
assumere nel passato.
Penso che sarebbe una metodologia
sbagliata per lo studio della storia giuridica di qualsiasi ente ecclesiale
comunitario, limitarsi al raffronto delle fonti documentali, senza tenere conto
della vita dell’ente stesso. Nella fattispecie che ci occupa, la considerazione
dell’erezione della prelatura dell'Opus Dei sotto il profilo formale-normativo
può apparire come una trasformazione di un istituto secolare in prelatura, il
che, a ben guardare, per quanto si abbia un’idea delle prelature personali
molto lontana da quella delle chiese particolari, e una concezione degli
istituti secolari molto vicina ad una comune associazione di fedeli (in quanto
al momento di dare questa configurazione all’Opus Dei questi istituti non erano
stati chiaramente inseriti tra gli istituti di vita consacrata), non si può non
vedere in tale avvenimento un autentico “miracolo genetico”: come mai un ente
associativo, nato dalla volontà dei suoi membri, finalizzato alla realizzazione
dei fini raggiungibili dai fedeli associati, può diventare un’organizzazione pastorale plasmata in un tipo di ente
previsto per la migliore distribuzione del clero e per la realizzazione di
peculiari attività pastorali sotto la guida di un prelato quale Ordinario
proprio?
Per non affrontare direttamente tale
scoglio e allo scopo di spiegare la trasformazione, alcuni hanno preferito
vedere degli elementi comuni tra quei tipi di enti e le prelature personali, i
quali consentissero il passaggio da una situazione giuridica all’altra (come
potrebbe succedere se una società di vita apostolica diventasse istituto
religioso o un vicariato apostolico una diocesi), ma, così facendo, non si fa
altro, a mio modo di vedere, che confondere i piani delle istituzioni e non si
arriva certo (perché si elude) alla conoscenza della realtà delle cose[50].
E’ ben vero che per economia giuridica,
per il rispetto alle situazioni giuridiche anteriori (interne all’ente stesso e
dell’ente rispetto a terzi), per necessità di individuare centri di imputazioni
giuridiche in modo da dare continuità alla titolarità di determinati beni, si
può, in effetti, dire che l’istituto secolare dell'Opus Dei è stato trasformato
in prelatura personale. Ma può risultare più chiaro considerare che l’istituto
secolare in questione è stato estinto e che la Santa Sede ha eretto una
prelatura personale sulla base della realtà sociale sottostante (i laici e i
sacerdoti dell'Opus Dei) «ut sit validum et efficax instrumentum suae ipsius
[della Chiesa] salvificae missionis pro mundi vita»[51]. Ciò che importa è, dunque, cogliere la natura
dell’ente in questione.
Può essere illuminante a tale fine
osservare, sia pure in stringata sintesi, la genesi storica del fenomeno: il
Beato Josemaría Escrivá, sacerdote, “vide” nel 1928 che Dio gli chiedeva di
impegnarsi nella diffusione della dottrina della chiamata universale alla
santità, non solo come comunicazione di un’idea ma come impegno per renderla
effettiva, allo scopo di contribuire a santificare il mondo, mettendo Cristo al
vertice di ogni attività umana, facendo sì che il lavoro umano tornasse alla
gloria di Dio e si rendesse presente sulla terra il Regno di Cristo. E’
significativo che all’inizio mons. Escrivá non volesse fondare nessuna
istituzione, ma cercasse dove poter canalizzare questa iniziativa, che
comprendeva una grande catechesi con persone di ogni età, cultura e condizione
sociale. Non trovando alcuna istituzione ecclesiastica adatta, si accorse di
dover essere il primo ad iniziarla, con la speranza che la Chiesa prendesse in
mano il frutto del suo lavoro. Incominciò, dunque, ad operare pastoralmente con
molti fedeli per trasmettere l’ideale della santità in mezzo alle occupazioni
professionali, familiari, sociali, dando ad essi l’opportuna formazione
cristiana e il dovuto sostegno spirituale, e trasmettendo la preoccupazione di
diffondere questo messaggio nel loro ambiente; perciò, l’attività apostolica
svolta dall’Opus Dei è quella fatta personalmente
dai fedeli che si accostano ai mezzi di formazione cristiana forniti dall’Opus
Dei[52]. A questo scopo si rendeva, però,
indispensabile l’attività di sacerdoti per la predicazione e l’amministrazione
dei sacramenti; il beato Escrivá chiese, infatti, l’aiuto a diversi sacerdoti,
sebbene comprendesse subito la necessità di suscitare vocazioni sacerdotali tra
i fedeli che avevano già colto il messaggio della possibilità di santificarsi
in mezzo al mondo e si erano anche impegnati a trasmettere questo ideale. Così
arrivarono le prime vocazioni sacerdotali, miranti a dedicarsi ministerialmente
in modo precipuo al servizio delle peculiari attività formative dell'Opus Dei
(e con ciò vennero pure i problemi canonici relativi all’incardinazione di
questi sacerdoti)[53].
Dalla precedente osservazione appare
palese quanto sia netta la secolarità che contraddistingue il fenomeno
ecclesiale dell'Opus Dei. Tuttavia, le vicende storiche sulle forme giuridiche
esterne applicate all'Opus Dei hanno potuto trarre in inganno alcuni, i quali
hanno interpretato l’erezione della prelatura dell'Opus Dei come un’evoluzione
di un ente simile ad un istituto secolare, e taluni addirittura hanno creduto
di poter comparare gli impegni che comuni fedeli assumono all’interno del loro
statuto di battezzati con quelli tipici della vita consacrata[54]. E’, infatti, palese quanto sia ancora
forte la tendenza ad ignorare in pratica la chiamata universale alla santità[55], la quale porta a considerare “vita
consacrata” qualunque tentativo di vivere le esigenze del Vangelo con
radicalità.
A questo proposito giova ricordare come
l’ormai noto iter giuridico dell'Opus
Dei abbia messo a fuoco la prudenza governativa e giuridica del suo fondatore,
nonché la fedeltà e fortezza per non cedere al richiamo, derivato dalla
mentalità di alcuni ambienti, di inserire nell’ambito della vita consacrata un
fenomeno pastorale prettamente secolare. Sebbene sia possibile ravvisare una
notevole sensibilità giuridica nel beato Escrivá, allorquando egli dovette
affrontare le diverse tappe della creazione di questo fenomeno pastorale, da
parte mia preferisco pensare che il suo talento giuridico si noti precipuamente
al momento di difendere senza usare mezzi termini qualcosa che interessa la
giustizia in modo grave, in quanto tocca i diritti fondamentali dei fedeli
(nella fattispecie il diritto a seguire lo stato di vita), e cioè, la difesa
della natura secolare dell'Opus Dei, per nulla assimilabile ai fenomeni di vita
consacrata (peraltro da lui tanto amata)[56]. Infatti, come va difesa (anche con gli opportuni
strumenti giuridici) la condizione canonica derivante dal carisma della vita
consacrata, così anche va rispettata la condizione secolare dei sacerdoti e dei
laici dell'Opus Dei, i quali hanno la vocazione e il diritto a cercare la santità e a promuovere la crescita della
Chiesa attraverso vie completamente aliene alla vita consacrata[57].
Dalla considerazione dei dati storici
richiamati, pur nella loro incompletezza, e dai dati notori di fatto nonché
dall’esame delle norme relative alla prelatura dell'Opus Dei, essa si presenta
come un ente composto da migliaia di comuni fedeli di ogni condizione, che
cercano la propria santità attraverso i loro doveri quotidiani (professionali,
familiari, sociali, ecc.) e trattano di diffondere nel mondo l’impegno per la
santità a cui tutti sono chiamati; per aiutare questi fedeli con la
predicazione della Parola e l’amministrazione dei sacramenti (specie quelli
dell’Eucaristia e della Penitenza), ci sono sacerdoti del clero secolare
ordinati a questo specifico ministero[58]. In altri termini, si può notare chiaramente come
l'Opus Dei non consista né in un gruppo di sacerdoti che si riuniscono per
seguire una determinata spiritualità o per dedicarsi ad una specifica attività
alla quale possono aderire dei laici, né in un’aggregazione di laici che si
riuniscono per svolgere certe attività conformi al fine della Chiesa e
richiedono l’aiuto di assistenti ecclesiastici, né ancora in un’associazione di
laici e chierici che vogliono formare un gruppo per realizzare qualche attività
caritativa, formativa o di pietà, ma, sin dall’inizio, l'Opus Dei si configura
come una convocazione di cristiani, ai quali si offre una profonda formazione
cristiana, affinché si impegnino a vivere (personalmente, senza perciò formare
un gruppo) l’ideale della perfezione della carità nel mondo e lo trasmettano ad
altri, impegno che è di tali caratteristiche che richiede un’attenzione
pastorale specifica. Poiché ciò comporta l’esercizio del ministero sacerdotale,
non desta meraviglia che il fondatore dell'Opus Dei pensasse fin dai primi
tempi alla necessità di chiedere la creazione di una giurisdizione personale
secolare per governare l’ente sorto per annunciare e facilitare la pienezza
degli impegni battesimali, formato dai fedeli comuni che vogliono assumere
questa responsabilità, senza nulla mutare con ciò la loro condizione canonica,
e da sacerdoti secolari che svolgono il loro ministero a favore di questi
fedeli e delle loro attività apostoliche[59].
Come si vede, non è sufficiente
l’esercizio del diritto fondamentale di associazione (con l’intento di seguire
una determinata spiritualità o di realizzare certe opere apostoliche) per far
presente l'Opus Dei, poiché esula dal diritto di associazione poter contare sul
ministero sacerdotale, il quale è di natura gerarchica. Fin dall’inizio l'Opus
Dei si è presentata come un fenomeno pastorale, bisognoso di un Pastore che ne
garantisca la dovuta assistenza sacerdotale. E proprio ciò è quello che è
avvenuto mediante l’erezione della prelatura dell'Opus Dei[60]. Non è stato uno sviluppo di un ente
associativo, né il raggiungimento da parte di esso di una maggiore autonomia
rispetto della Gerarchia (il che sarebbe stato un’aberrazione), bensì tutto
l’opposto, l’assunzione, cioè, da parte della Gerarchia della cura pastorale
dell’ente creato, mediante la nomina di un prelato al quale gli si confida un preciso
compito, dandogli la necessaria potestà.
Forse alla base delle perplessità relative
all’erezione della prelatura dell'Opus Dei e dei conseguenti timori
all’assimilazione delle prelature personali (in genere, ma specificamente di
quella dell'Opus Dei) alle diocesi si trova questo malinteso: pensare che gli
enti di stampo associativo potrebbero svilupparsi fino a costituirsi in una
prelatura (il che è un nonsenso). Con l’erezione della prelatura, l'Opus Dei
non acquistò nessuna “autonomia”, anzi, al contrario, venne affidata ad un
prelato. Né deve poi portare ad inganno il fatto che il prelato provenga dalla
stessa Opus Dei né che egli venga nominato dal Romano Pontefice mediante la
conferma di un’elezione. Tale procedura fa parte dei modi normali di costituire
un ufficio ecclesiastico conosciuti nell’ordinamento canonico (cann. 147 e 179)
e non desta meraviglia che il Legislatore supremo, per poter giungere ad una
giusta scelta, abbia attribuito il diritto di elezione ad un collegio
elettorale da lui definito legalmente[61], riservandosene, naturalmente, la conferma, atto
con cui controlla se il candidato a prelato goda delle specifiche qualità dallo
stesso Legislatore stabilite[62].
La prelatura dell'Opus Dei non è, insomma,
il frutto dell’esercizio del diritto di associazione, ma di quello di
petizione, di chiedere, cioè, all’autorità ecclesiastica competente (nella
fattispecie suprema, perché sovradiocesana, anzi universale) di provvedere all’attenzione
del fenomeno pastorale sorto, vale a dire di donargli un membro della Gerarchia
che goda della sacra potestas in
misura sufficiente per reggere la comunità cristiana esistente, in modo tale
che essa rimanga strutturata secondo il binomio ordo-plebs[63]. A conferma di quanto sinora esposto si trova il
recente discorso con cui lo stesso Romano Pontefice ha ribadito che ha voluto
erigere la prelatura dell'Opus Dei «organicamente strutturata, cioè dei
sacerdoti e dei fedeli laici, uomini e donne, con a capo il proprio Prelato»;
le sue parole manifestano l’intendimento del legislatore, non solo riguardo la
prelatura dell'Opus Dei, ma anche, in generale, rispetto alla figura giuridica
delle prelature personali: «innanzitutto desidero sottolineare che
l'appartenenza dei fedeli laici sia alla propria Chiesa particolare sia alla
Prelatura, alla quale sono incorporati, fa sì che la missione peculiare della
Prelatura confluisca nell'impegno evangelizzatore di ogni Chiesa particolare,
come previde il Concilio Vaticano II nell'auspicare la figura delle Prelature
personali»[64]. La singolarità di questa prelatura sta
nel fatto che la specificità del fenomeno pastorale non derivi da circostanze
professionali, linguistiche, ecc., ma dalle necessità spirituali sorte
dall’attività svolta dall’Opus Dei.
6. Considerazioni
conclusive
A chiusura di questo veloce sguardo sul
panorama dottrinale creatosi attorno alla figura delle prelature personali,
credo di poter ritenere che la conoscenza di questo tipo di ente passi
attraverso lo sforzo per comprendere la “sostanza” della prima prelatura
eretta, alla quale si arriva mediante l’osservazione del diritto vigente e,
soprattutto, della realtà medesima, e non attraverso un tentativo di spiegare
l’evoluzione giuridica di un gruppo ecclesiale. Penso che la dottrina debba
fare i conti con il fatto che non esiste più un gruppo (riconosciuto dalla
Chiesa), bensì, sulla base sociale dell’ente anteriormente esistente, la Chiesa
ha eretto, allo scopo ormai noto, una prelatura. A mio avviso, alla base dei
malintesi in materia di prelature personali si trova la dimenticanza di questo
dato di fatto, poiché se si continua a vedere nell’erezione della prima
prelatura la sistemazione giuridica di un ente associativo, è chiaro che il
discorso generale sulle prelature personali viene viziato alla radice. E’ ben
vero, però, che il corpo sociale della prelatura è formato da una convocazione,
a cui certi fedeli hanno risposto liberamente e sono stati dal Prelato
giudicati idonei per il servizio alla prelatura (e nel modo volontario di
incorporarsi alla prelatura è facile vedere l’analogia con gli enti
associativi), ma è altrettanto vero che la comunità così creata non forma
un’associazione, visto che si tratta di fatto e di diritto di una comunità
guidata da un Prelato con un proprio presbiterio. Che il fenomeno dell'Opus Dei
come ora descritto ponga tanti quesiti di natura teologica e giuridica che
meritano di essere ulteriormente approfonditi, è evidente; che la realtà
presentata manifesti tanti spunti di novità e sia quindi di difficile
classificazione, è innegabile; ma tutto ciò non esime alla riflessione
dottrinale da tenere conto di tale realtà, anzi la spinge a considerarla in
maniera speciale, e, comunque sia, nessuna impostazione scientifica può in modo
alcuno pretendere di adeguare la realtà allo schema di pensiero preconcetto
(solo si può avanzare legittimamente una siffatta pretesa se si tratta di
esigenze del diritto divino), perché altrimenti non si coglierebbe la novità
del fenomeno ecclesiale e si rischierebbe di ledere i diritti fondamentali dei
fedeli, come sopra accennato.
In quanto, poi, alla relazione dell'Opus
Dei con il tema generale delle prelature personali, è possibile concludere, in
sintesi, che argomentare, come sembra che si sia fatto, che le prelature
personali devono essere quello che l'Opus Dei è, ha una parte di verità: se si
erige l'Opus Dei in prelatura personale perché così si arriva alla soluzione
giusta[65], vuol dire che non ci può essere niente
di essenziale nella figura delle prelature personali contrario all’essenza
dell'Opus Dei (e viceversa), purché però si colga bene l’essenza dell'Opus Dei
e si tenga conto che sarebbe un errore grossolano prendere la parte per il
tutto, vale a dire che si sbaglierebbe chi pensasse che le altre prelature
personali debbano avere le stesse caratteristiche della prima che è stata
eretta (internazionale, sorta sulla base sociale di un fenomeno creato
volutamente, ecc.). La soluzione, che affonda le sue radici nella dottrina del
Concilio Vaticano II, di dotare una comunità cristiana bisognosa di una
peculiare assistenza pastorale, sparsa in più diocesi, di un prelato coadiuvato
da un presbiterio, senza che per ciò i fedeli interessati cessino di
appartenere a tutti gli effetti alle chiese locali, è applicabile, insomma, a
tanti altri fenomeni pastorali che si possono verificare, come di fatto si sono
verificati nella storia recente della Chiesa.
* Pubblicato in Le prelature personali nella normativa e nella vita della Chiesa,
Venezia. Scuola Grande di San Rocco, 25-26 giugno 2001, a cura di S. Gherro,
Padova 2002, pp. 15-53.
[1] Altri hanno tentato di compierlo, come,
per esempio, R. Klein, Die Personalprälatur im Verfassungsgefüge der Kirche, Würzburg
1995, pp. 330-515, ma cfr. i rilievi critici mossi a quest’opera da A. Viana, La prelatura personal en la estructura constitucional de la Iglesia.
Observaciones sobre un libro reciente, in Ius Canonicum, 37 (1997), pp. 749-763.
[2] Cfr. anche il contemporaneo decr. Ad gentes, nn. 20 e 27, in nota.
[3] Cfr. Paolo
VI, m. pr. Ecclesiae Sanctae,
del 6 agosto 1966, I, 4 (AAS, 58 [1966], pp. 760-761). Sempre nell’immediato
postconcilio, venivano anche menzionate le prelature personali nella cost. ap. Regimi Ecclesiae Universae, del 15
agosto 1967, la quale, riordinando l’assetto della Curia Romana, designava,
all’art. 49 § 1, la S. Congregazione per i Vescovi come dicastero competente
per quel che riguarda l’erezione di prelature personali e la nomina del prelato
(cfr. AAS, 59 [1967], p. 901).
[4] Ci sono diversi studi sui precedenti
delle prelature personali. Ad esempio, la monografia di J. Martínez-Torrón (La
configuración jurídica de las Prelaturas personales en el Concilio Vaticano II,
Pamplona 1986), dedicata precipuamente all’analisi del Presbyterorum ordinis, n. 10 (pp. 87-291), premette però una
rassegna di fenomeni pastorali che preannunciano la figura (cfr. pp. 29-79).
Chi difende la natura gerarchica della prelatura personale, simile a quella
della diocesi, trova sostegno nell’idea di prelatura che è sempre esistita nel
diritto canonico. Per esempio, Javier Hervada, nei suoi scritti sulle prelature
personali, ha insistito sulla necessità di prendere in considerazione i
precedenti storici e la tradizione canonica sui concetti implicati (cfr.
soprattutto P. Lombardía-J. Hervada,
Sobre prelaturas personales, in Ius Canonicum, 27 (1987), pp. 11-76).
Per uno studio sul significato dell’ufficio di prelato nel diritto canonico vid. J. Miras, “Praelatus”:
de Trento a la primera codificación, Pamplona 1998; vid. anche Idem, Tradición canónica y novedad legislativa en
el concepto de prelatura, in V.
Gómez-Iglesias, A. Viana, J. Miras, El
Opus Dei, prelatura personal. La Constitución Apostólica «Ut sit», Pamplona 2000, pp. 97-126.
[5] Sulla natura di queste circoscrizioni
ecclesiastiche e i corrispondenti dati, vid.
J.I. Arrieta, Chiesa particolare e circoscrizioni
ecclesiastiche, in Ius Ecclesiae,
6 (1994), pp. 31-33.
[6] Per esempio, nel 1918, per la cura
pastorale dei profughi in Italia la Santa Sede decise di nominare «un Prelato,
il quale tenga luogo dell’Ordinario proprio ed immediato per tutti i detti
sacerdoti e seminaristi in qualsiasi luogo e diocesi essi dimorino (…) Con
questo mezzo intende inoltre la Santa Sede di meglio provvedere all’assistenza
religiosa dei laici profughi e segnatamente di quelli che si trovano
raggruppati in piccoli centri che richieggono una più speciale assistenza,
dando a tal fine al detto Prelato l’autorità per destinare i sacerdoti
profughi, sentiti possibilmente gli Ordinari propri, ed in ogni caso i Vescovi
di dimora, all’assistenza dei detti gruppi e provvedere ai loro bisogni
spirituali» (S. Congregazione
Concistoriale, Decreto del 3
settembre 1918, in AAS, 10 [1918], pp. 415-416). Un caso, per certi versi simile, è costituito dalla
creazione dell’ufficio consistente nel cercare sacerdoti idonei per inviarli,
con il consenso dei propri Ordinari e degli Ordinari del luogo dove andranno,
all’assistenza pastorale degli emigranti italiani e avente il dovere di
vigilare tali sacerdoti, nonché la facoltà di trasferirli o rimuoverli
dall’ufficio (cfr. S. Congregazione
Concistoriale, Notificatio del
31 gennaio 1915, in AAS, 7 [1915], pp. 95-96); quest’ufficio fu affidato
dapprima ad un vescovo diocesano e successivamente si decise di nominare un
prelato libero da altri incarichi e insignirlo della dignità episcopale (cfr. S. Congregazione Concistoriale, Notificazione, del 23 ottobre 1920, in
AAS, 12 [1920], pp. 534-535).
[7] Il fenomeno migratorio ha poi acquistato
una rilevanza pratica crescente a partire dal secolo scorso, in seguito alle
caratteristiche dell’economia della società industrializzata e alla facilità di
comunicazione, e ha comportato per la Chiesa una sfida apostolica, poiché essa
non si può accontentare di una pastorale di “conservazione” ma deve
approfittare del fenomeno migratorio per espandere la buona novella. In proposito
esiste un’ampia bibliografia e diverse pubblicazioni periodiche; per il fatto
di trovarsi in un volume di grande utilità dal punto di vista della ricerca
giuridica, rimando allo studio di G.
Rosoli, Alcune considerazioni
storiche su S. Sede e fenomeno della mobilità umana, in Chiesa e mobilità umana. Documenti della
Santa Sede dal 1883 al 1983, a cura di G.
Tassello-M. Favero, Pontificia Commissione per la Pastorale delle
Migrazioni e del Turismo, Roma 1985, pp. XIII-XXX e, per quel che riguarda più
specificamente l’aspetto canonico, a quello di V. De Paolis, Aspetti
canonici del magistero della S. Sede sulla mobilità umana, ibidem, pp. XXXI-XLIX.
[8] Cfr. AAS, 44 (1952), pp. 649-704.
[9] I cappellani rimanevano incardinati nello
stesso luogo dove erano prima di ricevere questo ufficio ed erano sottoposti
all’autorità dell’ordinario locale, ma, per quello che riguardava il loro
specifico ministero, facevano capo a un direttore nazionale, al quale, pur non
godendo di nessuna giurisdizione né territoriale né personale, tuttavia gli
venivano riconosciute vi muneris,
dalla stessa Costituzione, talune funzioni tipiche di chi governa un
presbiterio. Infine, il lavoro pastorale svolto nelle singole nazioni veniva
controllato e coordinato dalla S. Congregazione Concistoriale.
[10] Si nota, insomma, che
quest’organizzazione pastorale tende all’instaurazione di una giurisdizione
circoscritta personalmente, cumulativa con quella dei vescovi diocesani; è
significativo al riguardo come alcuni proposero, per esempio, l’erezione di un
ordinariato internazionale per l’Apostolato del Mare (cfr. G. Ferretto, L’Apostolato del Mare. Precedenti storici e ordinamento giuridico,
Pompei 1958, p. 52) e come, addirittura, qualche canonista qualificasse la
situazione che si era creata di fatto in Italia con questo Apostolato (un
vescovo incaricato, cappellani di marittimi) di “prelatura personale”, quando
ancora quest’espressione non era stata coniata legalmente (cfr. L.M. De Bernardis, La giurisdizione ecclesiastica sulle navi, in Rivista del Diritto della Navigazione, 6 [1940], pp. 425-426).
[11] E’ interessante far notare la sensibilità
di Papa Pacelli sul tema canonistico della personalità e territorialità
nell’organizzazione ecclesiastica. Egli, infatti, aveva elaborato la sua tesi
dottorale sulla personalità delle leggi ecclesiastiche (cfr. E. Pacelli, La personnalité et la territorialité des lois particulièrement dans le
droit canonique, in Ephemerides Iuris
Canonici, 1 [1945], pp. 5-27).
[12] AAS, 43 (1951), pp. 562-565.
[13] Prima della citata Istruzione esistevano
alcuni precedenti, nei quali la Santa Sede aveva dovuto operare in modo
singolare mediante la nomina di un vicario (del Papa) a cui veniva attribuita
una potestà di giurisdizione personale, cumulativa con quella degli ordinari
locali, per assistere pastoralmente i fedeli militari che si trovavano in
peculiari circostanze di vita. (Per la storia degli ordinariati militari nei
secoli scorsi, vid., per esempio, A. Viana, Territorialidad y personalidad en la organización eclesiástica. El caso
de los ordinariatos militares, Pamplona 1992, pp. 17-64).
[14] In seguito a quest’istruzione, e prima
della celebrazione del Concilio, furono eretti 9 vicariati militari in
altrettante nazioni, che si aggiungevano ai 10 già esistenti. Per alcuni dati,
antichi ed attuali sino al 1992, e per uno studio della normativa su questi
enti, mi permetto di rinviare a E. Baura,
Legislazione sugli ordinariati castrensi,
Milano 1992.
[15] Sulla storia della Missione di Francia vid. J. Faupin, La
Mission de France. Historie et Institution, Tournai 1960.
[16] Cfr. Pio XII, Cost. ap. Omnium Ecclesiarum sollicitudo, 15 agosto 1954, in AAS, 46 (1954),
pp. 567-574.
[17] Cfr. A. de Fuenmayor—V.
Gómez-Iglesias—J.L. Illanes, L’itinerario giuridico dell'Opus
Dei. Storia e difesa di un carisma, Milano 1991, p. 470 in nota (in seguito
quest’opera verrà citata così: L’itinerario…).
[18] Cfr. ibidem, pp. 454-457.
[19] Cfr. ibidem, pp. 464 e ss.
[20] Sarebbe sbagliato, però, pensare che la
previsione di questa figura si debba esclusivamente al problema istituzionale
dell'Opus Dei; oltre a quanto si è già detto nel testo e quanto in seguito si
dirà, basta ora ricordare che le giurisdizioni personali furono anche prese in
considerazioni in altri momenti del Concilio, per esempio, durante i lavori
della Commissione De Episcopis ac de
dioecesium regimine (cfr. J.
Martínez Torrón, La configuración
jurídica…, p. 170).
[21] Cfr. L’itinerario…,
pp. 520-521.
[22] Il testo integro della lettera si trova
in L’itinerario…, pp. 814-817.
[23] Il Codice dei canoni delle Chiese
orientali non prevede espressamente la figura delle prelature personali,
sebbene nella sua specifica organizzazione delle circoscrizioni ecclesiastiche
è riscontrabile una soluzione alle giurisdizioni personali nella figura
dell’esarcato, il quale è circoscritto da un territorio o con qualche altro
criterio (cfr. can. 311 § 1 del CCEO).
[24] Can. 217 § 2 dello Schema del 1977 (Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici
Recognoscendo, Schema Canonum
Libri II de Populo Dei, Typis Polyglottis Vaticanis 1977). Tra le prelature
personali cum proprio populo,
assimilate alle diocesi, venivano espressamente menzionate le «Praelaturae
castrenses» (can. 219 § 2).
[25] Cfr. Communicationes,
12 (1980), pp. 275-282. Due Consultori presenti in quella seduta avevano
precedentemente pubblicato questa tesi: cfr. K. Mörsdorf, Decree on the
Bishop’s Pastoral Office in the Church in Commentary on the Documents of Vatican II, a cura di H. Vorgrimler,
vol. 2, New York 1968, p. 205 e W. Aymans,
Der strukturelle Aufbau des Gottesvolkes,
in Archiv für katholisches Kirchenrecht,
148 (1979), pp. 21-47, specie, pp. 38 e ss. Per più dati su questa fase della
redazione del Codice, vid. J.E. Fox, The personal
prelature of the second Vatican Council: an historical canonical study,
Romae 1987, pp. 165-166.
[26] Il can. 335 § 1 identificava le chiese
particolari con le diocesi, alle quali venivano assimilate «nisi aliud constet»
le altre circoscrizioni territoriali; nel § 2 dello stesso can. si diceva:
«Ecclesiae particulari in iure aequiparatur, nisi ex rei natura aut iuris
praescriptio aliud appareat, et iuxta statuta a Sede Apostolica condita,
Praelatura personalis». Il can. 337 dedicava il primo paragrafo alle prelature
territoriali e il secondo a quelle personali: «Praelatura personalis, etiam ad
peculiaria opera pastoralia vel missionalia perficienda, habetur cum portio
populi Dei, Praelati curae commissa, indolem habeat personalem, complectens
nempe solos fideles speciali quadam ratione devinctos; huiusmodi sunt
Praelaturae castrenses, quae Vicariatus castrenses quoque appellantur». Nel
can. 339 § 1 si raccoglieva il principio generale della territorialità, mentre
nel § 2 si apriva la strada alla costituzione di diocesi e prelature personali.
(Cfr. Pontificia Commissio Codici Iuris
Canonici Recognoscendo, Schema
Codicis Iuris Canonici, Libreria Editrice Vaticana 1980).
[27] Cfr. Pontificia
Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, Relatio complectens
synthesim animadversionum ab Em.mis atque Exc.mis Patribus Commissionis ad
novissimum Schema Codicis Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a
Secretaria et consultoribus datis, Typis Polyglottis Vaticanis 1981, pp.
98-101.
[28] Cfr. Pontificium Consilium de Legum Textibus
Interpretandis, Acta et Documenta Pontificiae Commissionis Codici Iuris
Canonici Recognoscendo. Congregatio Plenaria diebus 20-29 octobris 1981 habita,
Typis Polyglottis Vaticanis 1991 (in seguito Plenaria 1981). Per la conoscenza del’iter di elaborazione
del Codice del 1983 vid. J.
Herranz, Génesis y elaboración del nuevo Código de Derecho Canónico, in
Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, a cura di A. Marzoa, J. Miras e R. Rodríguez-Ocaña, Pamplona 1996, vol.
I, pp. 157-205.
[29] Cfr. C.J.
Errázuriz M., Circa
l’equiparazione quale uso dell’analogia in diritto canonico, in «Ius
Ecclesiae», 4 (1992), pp. 215-224.
[30] Cfr. W. Aymans,
Der strukturelle…, cit., pp. 43 e 44.
[31] Cfr. Plenaria
1981, p. 377.
[32] La Commissione tecnica paritetica
(composta da membri nominati dalla Congragazione per i Vescovi e dall’Opus Dei)
aveva già finito i suoi lavori (cfr. L’itinerario…,
pp. 610-621), sicché si procedette all’esame delle sue conclusioni «da parte di
una Commissione speciale di Cardinali designata dal Santo Padre, tenendo conto
delle finalità, della composizione e della diffusione dell'Opus Dei, e che
espresse il proprio parere il 26 settembre 1981» (S. Baggio, Un bene per
tutta la Chiesa, in L’Osservatore
Romano, 28 novembre 1982).
[33] Tra l’altro anche alcune delle prime
perplessità espresse in sede dottrinale circa l’applicazione della figura delle
prelature personali (i cui argomenti vennero in parte considerati nella
Plenaria) coincidono nel tempo con la preparazione di detta erezione e, sebbene
non espressamente, tengono ovviamente presente l’eventualità della creazione di
una prelatura personale per la soluzione del problema istituzionale di una
entità già esistente (cfr. J. Manzanares,
De praelaturae personalis origine, natura
et relatione cum iurisdictione ordinaria, in Periodica, 69 [1980], pp. 387-421).
[34] Plenaria 1981, p. 388.
[35] Cfr. ibidem.
[36] Può risultare utile richiamare
l’attenzione su un fatto assai significativo che, a mio parere, emerge
chiaramente dal tenore della discussione avuta nella Plenaria, e cioè l’oggetto
della discussione. La Plenaria, di per sé, era volta a dare un parere non tanto
tecnico quanto di prudenza pastorale, eppure non vennero discussi problemi
pratici relativi allo sviluppo delle eventuali prelature, ma il dibattito si
spostò verso argomenti piuttosto teorici, riguardo la natura ecclesiologica e
giuridica di queste nuove istituzioni. Penso che ciò sia conseguenza della
natura stessa del fenomeno della codificazione, poiché la legge codiciale non
si limita a regolare la realtà, ma tende a qualificare e a classificare le
istituzioni, sicché nel metterle in rapporto le une con le altre, aspira a
creare un sistema razionale esauriente. Non v’è dubbio che il legislatore debba
comprendere gli istituti che intende normare, ma talvolta le esigenze della
codificazione sembrano richiedere una comprensione che non sempre è possibile o
necessaria. E, nonostante ciò, anche quando il discorso si muove sul piano
delle categorie astratte, è inevitabile la considerazione — forse anche
inconscia — di esempi concreti tratti dalla realtà. In effetti, a seconda
di quali fossero gli esempi concreti presi in considerazione si optava, o per
un modello legislativo analogo alla chiesa particolare, o per un altro in cui
si rimarcasse la capacità di incardinazione (quindi, prevalentemente clericale,
con il quale però i laici potrebbero cooperare).
[37] Cfr. Pontificia
Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo, Schema novissimum iuxta placita Patrum Commissionis emendatum atque
Summo Pontifici praesentatum, Typis Polyglottis Vaticanis 1982.
[38] Cfr. J. Herranz, Génesis y elaboración…, cit., pp. 198-201. L’autore fa notare che perfino quando il Codice
era già in stampa si introdussero alcuni cambiamenti minoris momenti, senza convocare agli altri membri della citata
Commissione dei quattro membri, data l’urgenza di promulgare il testo nella
data fissata. Per quel che riguarda i canoni sulle prelature personali, dal
testo dello Schema del 1982 alla redazione definitiva, oltre al menzionato
trasferimento, si introdusse — come già previsto nel m. pr. Ecclesiae Sanctae — il requisito
della previa consultazione delle Conferenze Episcopali interessate prima
dell’erezione di una prelatura personale e il cambiamento nell’attuale can. 296
del termine «incorporationis» (inserito nel testo del 1982, ma non presente
nell’Ecclesiae Sanctae) con
l’espressione «organicae cooperationis».
[39] Cfr. G.
Dalla Torre, Le strutture personali e le finalità pastorali, in I
principi per la revisione del Codice di diritto canonico. La ricezione
giuridica del Concilio Vaticano II, a cura di J. Canosa, Milano, 2000, p. 570.
[40] A parte le proposte dottrinali, anche in
sede pastorale ci si è posti il problema. Per esempio, si concludeva così in una
Plenaria del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli
Itineranti: «Per quanto riguarda le strutture pastorali, è stata sottolineata
la validità di quelle proposte nel De
Pastorali Migratorum Cura. Si sono formulate anche delle soluzione nuove,
da definirsi, per alcuni gruppi di persone particolarmente abbandonate dal
punto di vista religioso. In detto contesto è stato proposto di studiare quali
strutture, come ad esempio la prelatura personale, potrebbero essere più adatte
alla cura pastorale degli zingari e dei lavoratori agricoli migranti nel Sud
degli Stati Uniti» (Pontificio Consiglio
della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, La missione del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e
gli Itineranti nel crescente fenomeno odierno della mobilità umana. Atti della
XII Riunione Plenaria. Vaticano, 19-21 Ottobre 1993, Documento Finale, n.
7, Città del Vaticanno s.d., p. 193).
[41] Una soluzione ricorrente, e probabilmente
molto efficace, è quella delle parrocchie personali per gruppi di emigranti,
come anche le missioni con cura animarum
di cui al n. 33 § 2 dell’Istruzione Nemo
est, del 22 agosto 1969, della S. Congregazione
per i Vescovi (AAS, 61 [1969], pp. 614-643). Senonché, talvolta il fenomeno pastorale — anche quello
migratorio — può trascendere l’ambito di una diocesi e può consigliare
un’unità di indirizzo “transdiocesana”. Così, di recente, si è venuto incontro
a queste esigenze mediante le soluzioni che si rifanno a quelle già previste
nella cost. ap. Exsul Familia di Pio
XII per questa fattispecie, le quali saranno sufficienti in alcuni casi, ma in
altri possono risultare troppo limitate. Difatti, nell’ambito della pastorale
con i migranti ci si sostiene in alcune zone grazie al contributo dei
religiosi, specie di quelli che hanno come scopo precipuo appunto quello della
pastorale con i migranti, ma ciò non osta che lo sviluppo dell’organizzazione
pastorale non richieda l’erezione di un ente giurisdizionale, con il quale,
naturalmente, potrebbe collaborare efficacemente anche il clero religioso (cfr.
la appena citata Istruzione, n. 53 § 1 in nota), anche mediante convenzioni tra
la Santa Sede e un istituto religioso, alla maniera che si è soliti fare con
alcune circoscrizioni ecclesiastiche in territorio di missione (senza nessuna
confusione, evidentemente, dell’istituto con la circoscrizione).
[42] Per esempio, nella IX Plenaria del
Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, del 24-26
Ottobre 1988, alla domanda di Mons. Re di sapere come si potrebbe organizzare
una prelatura personale per migranti, il prof. Beyer rispose: «…la situazione è
piuttosto confusa. Molte discussioni si sono fatte in occasione della
preparazione dei Documenti del Concilio (Presbyterorum Ordinis n. 10, Ecclesiae
Sanctae) ed in preparazione del Codice di Diritto Canonico» (People on the move, 54 [1989], p. 114).
[43] Alcuni sviluppi potrebbero far pensare ad
un mancato aggiornamento dell’organizzazione pastorale. Per esempio, la
Missione di Francia — citata più volte e da più parti come precedente
delle prelature personali — ha rinnovato, dopo l’entrata in vigore del Codice,
la sua legislazione speciale rimanendo sulla base preconciliare della finzione
giuridica della prelatura territoriale (cfr. Legge propria del 18 giugno 1988,
approvata con Decreto della Congregazione per i Vescovi del 28 maggio 1988
(Prot. n. 730/87), in La Documentation
catholique, 85 [1988], pp. 1155-1157). Potrebbe anche destare qualche
meraviglia il fatto che la norma recente sulla pastorale con i marittimi (Giovanni Paolo II, m. pr. Stella Maris, del 31 gennaio 1997, in
AAS, 89 [1997], pp. 209-216), volta ad aggiornare l’organizzazione pastorale
descritta nel Decreto del 24 settembre 1977 della Pontificia Commissione per la
Pastorale delle Migrazioni e del Turismo (cfr. Pontificia commissio de spirituali migratorum atque itinerantium
cura, Decreto, del 24
settembre 1977, in AAS, 69 [1977], pp. 737-746) — il quale a sua volta fa
perno sull’assetto disposto dalla succitata Exsul
Familia —, non contenga alcuna menzione delle prelature personali
quale sbocco naturale dello sviluppo organizzativo di detta peculiare
pastorale, malgrado l’apostolato del mare fosse uno degli esempi tipici di
possibili giurisdizioni personali (cfr. supra,
nota 11), al punto che nella Plenaria del 1981 venne citato l’apostolato del
mare come uno degli esempi tipici a cui la Segreteria della Commissione per la
revisione del Codice stava pensando al momento di redigere i canoni sulle
prelature personali dello Schema del 1980 (cfr. Plenaria del 1981, p.
389). Occorre tuttavia segnalare che la norma attuale non esclude, ovviamente,
l’eventualità di erigere prelature personali per l’assistenza pastorale della
gente del mare, poiché tale possibilità è prevista dal Codice, e questa
potrebbe essere la spiegazione dell’omissione in parola; mi sono occupato più
profusamente del tema dell’apostolato del mare in E. Baura, Il motu
proprio “Stella Maris”. Cenni storici e
profili giuridici della normativa sull’apostolato del mare, in People on the move, 26 (1997), n. 74,
pp. 25-42.
[44] In quanto alla dottrina che sostiene la
natura associativa delle prelature personali, penso che l’autore più
rappresentativo sia W. Aymans
(cfr., p. es., oltre all’opera già citata, Das
konsoziative Element in der Kirche. Gesamtwürdigung, in Das konsoziative Element in der Kirche. Atti
del VI Congresso Internazionale di Diritto Canonico, St. Ottilien 1989, pp.
1056-1057). Riguardo la teoria secondo cui le prelature personali sarebbero
composte di soli chierici, l’autore più emblematico è forse G. Ghirlanda (cfr. De differentia Praelaturam personalem inter et Ordinariatum militarem
seu castrensem, in Periodica, 76
[1987], pp. 219-251 e i suoi lavori posteriori dove raccoglie le stesse idee).
Molti sono gli autori che hanno risposto direttamente all’una e all’altra
teoria; per un’esposizione descrittiva delle prelature personali, contraria
alle due tesi menzionate, vid., per
esempio, J. Hervada, sub Titulus “De Praelaturis personalibus”,
in Comentario exegético…, cit., vol.
II, pp. 398-417. Tende ad accomunare le prelature personali con le chiese
particolari, perché muove da un’idea ampia di chiesa particolare, J.L. Gutiérrez, Dimensiones particulares de la Iglesia, in Iglesia universal e iglesias particulares. IX Simposio Internacional de
Teología, Pamplona 1989, pp. 251-272. (Tengo a chiarire che, poiché non è
mia intenzione presentare un resoconto esauriente delle distinte posizioni
dottrinali, mi sono limitato a segnalare le questioni che, a mio avviso, stanno
alla radice del dibattito, senza che l’omissione delle singole tesi di tanti
altri autori che si potrebbero citare suppongano minimamente una qualche
sottovalutazione di esse).
[45] Sulle citate regole interpretative cfr. A. Van Hove, De legibus ecclesiasticis, Mechliniae-Romae 1930, p. 264.
[46] Di recente è stato affermato che la
comprensione delle prelature personali non è facilitata dalla «incerta visione»
che sembra avere il vigente Codice nel dare a questo tipo di enti una
collocazione sistematica, asserendo addirittura che l’attuale inquadramento
«certamente diverge fortemente dalla prima intuizione progettuale che aveva
dato il Concilio» (A.M. Punzi Nicolò,
Libertà e autonomia negli enti della
Chiesa, Torino 1999, pp. 196). Mi sembra, comunque, condivisibile la
convinzione a cui giunge l’autrice ora citata, quando asserisce che «appare del
tutto inutile affaticarsi sulla distribuzione degli istituti all’interno del
codex, e volerne trarre conclusioni stringenti» (ibidem, p. 197). Sarebbe peraltro cadere nell’ingenuo mito della
codificazione pretendere che la sistematica di un Codice potesse essere
perfetta al punto di qualificare univocamente tutti gli istituti in esso
regolati con solo la loro collocazione sistematica.
[47] Forse conviene annotare di passaggio
qualcosa di per sé ovvia, e cioè che “ente gerarchico” non è un titolo relativo
alla categoria o importanza dell’ente, né implica misconoscere l’elemento
gerarchico riscontrabile in enti non gerarchici. Concretamente, come è noto, la
Chiesa concede ad alcuni superiori religiosi la potestà ecclesiastica di regime
necessaria affinché possano determinare certi aspetti relativi all’ordo sacerdotalis dei loro sudditi, che
per natura spetta unicamente alla Gerarchia ecclesiastica (concessione di
lettere dimissorie, facoltà ministeriali, ecc.), sebbene gli istituti
religiosi, come si sa, non facciano parte della struttura gerarchica della
Chiesa (cfr. can. 207 § 2). L’ente gerarchico, invece, fa riferimento alla
struttura gerarchica dell’ente; gerarchica perché essa — la struttura
sociale — viene determinata dalla relazione tra l’ordo e il popolo.
[48] Nella migliore tradizione giuridica,
invece, è possibile riscontrare un marcato realismo giuridico; già i romani
avevano capito che «non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula
fiat» (Dig. 16.17.1). La scuola
esegetica del diritto canonico — presente in un settore della canonistica
che ha fatto parte del dibattito che ci occupa — non ha sempre, però,
ricordato il principio raccolto nelle decretali, secondo cui «non sermoni res,
sed rei est sermo subiectus» (X 5.40.6 [tit. de verborum significatione]).
[49] Cfr., per esempio, W. Aymans-Kl. Mörsdorf, Kanonisches
Recht. Lehrbuch aufgrund des Codex Iuris Canonici, vol. II, Verfassungs-und Vereinigungsrecht,
Paderborn-München-Wien-Zürich 1997, pp. 736-755, specie pp. 754-755 e G. Ghirlanda, Natura delle prelature personali e posizione dei laici, in Gregorianum, 69, 2 (1988), pp. 299-314,
specie pp. 312-313. Rispetto
alla non contraddizione tra la normativa codiciale e l’erezione della prelatura
dell'Opus Dei cfr. G. Lo Castro, Prelature personali. Profili giuridici,
2 ed. Milano 1999, pp. 70-115.
[50] Tale modo di ragionare si è dato fin
dall’inizio. Per esempio, pochi mesi prima che il Fondatore dell'Opus Dei
chiedesse per la prima volta alla Santa Sede che studiasse la possibilità di
erigere una prelatura personale per l'Opus Dei, c’era chi riferiva che in
«ambientes jurídico-pastorales» era stata vista nelle prelature personali la
possibilità di risolvere alcuni problemi degli istituti secolari (cfr. J.M. Piñero Carrión, Institutos
seculares y prelaturas personales, in Revista
Española de Derecho Canónico, 25 [1969], pp. 305-323, specie p. 306).
Questo modo di impostare il discorso — forse mosso dalla buona volontà di
giustificare comunque un prevedibile cambiamento —, denota, a mio avviso,
una mancanza di oggettività giuridica, nel non scorgere la differenza
sostanziale tra le due forme giuridiche, nonché una mancanza di realismo,
poiché non si ferma a considerare quanto fosse essenzialmente inadeguata la forma di istituto secolare per l'Opus
Dei. (Su quest’ultimo punto, cfr. L’itinerario…,
pp. 429-450).
[51] Giovanni Paolo II, cost. ap. Ut
sit, del 28 novembre 1982, in AAS, 75 (1983), pp. 423-425.
[52] Cfr. A.
Vázquez de Prada, Il fondatore
dell'Opus Dei. Vita di Josemaría Escrivá de Balaguer, Milano 1999, pp. 306
e ss.
[53] Cfr. L’itinerario…,
pp. 141 e ss.
[54] La piena secolarità dei fedeli dell'Opus
Dei è un dato di fatto che può offrire lo spunto per una riflessione circa le
possibilità dello spiegamento dello statuto canonico del comune battezzato, ma
non è in alcun modo possibile metterlo in dubbio, per le ragioni segnalate nel
testo. E’ chiaro che un errore su questo punto della natura dell'Opus Dei
inficerebbe qualunque altra considerazione in merito. (E’ ancora partito, però,
da questa prospettiva fuorviante C.I.
Heredia, El Opus Dei y sus
tribunales, in Anuario Argentino de
Derecho Canónico, 5 [1998], pp. 81-134 [specie pp. 110 e 111]).
[55] Cfr. G.
Lo Castro, Prelature personali,
cit., pp. 310-311.
[56] «Noi non siamo religiosi, non
assomigliamo affatto ai religiosi, e non c’è autorità al mondo che ci possa
obbligare a essere come loro: ciò non toglie che noi veneriamo e amiamo lo
stato religioso. Io prego ogni giorno perché i religiosi continuino a offrire
alla Chiesa frutti di virtù, di opere apostoliche e di santità» J.M. Escrivá de Balaguer, in Colloqui con Monsignor Escrivá, Milano
1987, pp. 71 e 72.
[57] Non riconoscere la secolarità dei fedeli
(chierici e laici) dell'Opus Dei, «oltre ad essere dal punto di vista umano
un’insolenza, sarebbe — sono parole del fondatore dell'Opus Dei —
una grave mancanza contro la morale cristiana, contro la legge divina positiva
e anche contro la stessa legge naturale. In tutta la legislazione e la prassi
ecclesiastica non c’è nessuna norma, nessun principio che possa giustificare un
simile comportamento tirannico (…) Così come nessuno mi può obbligare a
prendere moglie, a sposarmi (…) Il diritto naturale, il diritto divino
positivo, la morale cristiana e i diritti acquisiti si opporrebbero, ripeto, a
una simile violenza, venendo in difesa della libertà delle coscienze» (J.M. Escrivá de Balaguer, Lettera, 25 maggio 1962, nn. 34 e 35,
cit. da L’itinerario…, pp. 483 e
484).
[58] Oltre a questi sacerdoti, ordinati al
servizio della prelatura e incardinati in essa, ci sono chierici dell'Opus Dei
incardinati nelle diocesi che formano un’associazione, i quali compiono la
missione dell'Opus Dei cercando di santificarsi nell’esercizio del loro
ministero, il quale viene svolto sotto l’esclusiva dipendenza del
corrispondente vescovo diocesano (cfr. Codex
Iuris Particularis Operis Dei [in seguito Statuta], nn. 42 e 57-78).
[59] Poiché l'Opus Dei nasce come una
mobilitazione di comuni fedeli, al servizio dei quali si ordinano alcuni
presbiteri, si presenta come un dato fondamentale per comprendere il fenomeno
dell'Opus Dei e la sua configurazione giuridica l’esistenza del presbiterio
(cfr. cost. Lumen Gentium, n. 28 e
decr. Presbyterorum Ordinis, n. 8)
che coadiuva il prelato. L’esistenza di un presbiterio è un elemento essenziale
in una prelatura personale, come si può desumere dalla lettura del can. 295 §
1, il quale segnala come nota caratteristica della potestà del prelato
personale quella di erigere un seminario «necnon alumnos incardinare, eosque titulo servitii praelaturae ad ordines
promovere». Ebbene, è proprio ciò che accade nell'Opus Dei: alcuni fedeli
vengono dal prelato chiamati al sacerdozio per cooperare con lui nella missione
ricevuta di provvedere al servizio pastorale dei fedeli dell'Opus Dei e della
loro azione apostolica, come afferma il n. 1 § 2 degli Statuta: «Praelaturae presbyterium constituunt illi clerici qui ex
eiusdem fidelibus laicis ad Ordines promoventur et eidem incardinantur»; e il
n. 36 § 1 precisa: «Praelaturae presbyterium ab illis clericis constituitur,
qui, ad sacros Ordines a Praelato promoti ad normam nn. 44-51, Praelaturae
incardinantur eiusque servitio devoventur».
Tale presbiterio non è, dunque, frutto di una qualifica formale da parte del
legislatore, ma costituisce un elemento essenziale della prelatura, che nella
fattispecie che ci occupa è sorto sulla base di una realtà preesistente.
Poiché i
presbiteri incardinati nella prelatura dell'Opus Dei sono stati ordinati al
servizio della prelatura, il prelato ha su di loro una potestà piena, vale a
dire non solo relativa alla disciplina della vita dei presbiteri ma anche
rispetto al loro ministero. E’ il prelato, che determina in quale modo i
presbiteri del clero secolare incardinati nella sua prelatura lo aiuteranno
nella sua missione. Ciò si manifesta in maniera quasi tangibile nel rito delle
ordinazioni diaconali e presbiterali, quando, come avviene nel caso che ci
occupa, il prelato gode della condizione episcopale: è il prelato a chiamare i
candidati e a trasmettergli la potestà di ordine per servire la prelatura,
previa ricezione della loro promessa di obbedienza a lui e ai suoi successori.
[60] Cfr. A.
de Funemayor, Escritos sobre
prelaturas personales, Pamplona 1990, pp. 66-100.
[61] Cfr. Statuta,
n. 130.
[62] Cfr. Statuta,
n. 131.
[63] Oltre alla cost. ap. Ut sit, mediante la quale si erige la prelatura dell'Opus Dei, si
evidenzia quanto affermato nel testo nella Bolla di Giovanni Paolo II, del 21 novembre 1994, di elevazione
all’episcopato dell’attuale prelato: «(…) Nos seligere solemus probatos viros
qui pastorale ministerium sedule expleant. Post mortem autem Venerabilis
Fratris Alvari del Portillo opportunum duximus aptius consulere praelaturae
personali Sanctae Crucis et Operis Dei, quo planius prospiceretur animarum
saluti illorum Christifidelium. Ideo Apostolica Nostra potestate te,
praelaturae personali Sanctae Crucis et Operis Dei Praelatum, quem novimus
virum prudentem, pium, aequum animo atque assiduum in pastorali industria,
inter Episcopos adlegere cupimus (…) Denique te, dilecte Fili, gregem tuum et
omnes Christifideles committimus intercessioni Dei Genetricis Mariae et beati
Josephmariae Escrivá de Balaguer…» (in Romana [Bolletino della prelatura
dell'Opus Dei], 11 [1995], n. 20, pp. 14 e 15). Per quanto riguarda la
struttura dell’ente comunitario secondo il binomio ordo-plebs, vedi in dottrina J.
Hervada, Aspetti della struttura
giuridica dell'Opus Dei, in Il
Diritto Ecclesiastico, 97 (1986), I, pp. 410-430.
[64] Giovanni Paolo II, Discorso del 17 marzo 2001 ai partecipanti
all’Incontro sulla “Novo millennio ineunte” promosso dalla Prelatura dell’Opus
Dei, in L’Osservatore Romano, del 18 marzo 2001, p. 6.
[65] Cfr. Giovanni
Paolo II, cost. ap. Ut sit,
cit., Proemio.