Juan Ignacio Arrieta
Pontificia Università della Santa Croce
Sommario: 1. Considerazioni generali. – 2. L’idea di giurisdizione nell’ordinamento canonico: a) Il contenuto della giurisdizione nella Chiesa; b) I termini soggettivi del rapporto gerarchico nella Chiesa. – 3. La determinazione della giurisdizione ecclesiastica: a) La distinta rilevanza giuridica della missio canonica dei vescovi; b) Il concorso di rapporti di giurisdizione nell’esperienza della Chiesa; c) Il carattere personale del rapporto di giurisdizione; d) L’incidenza della volontà nella determinazione della giurisdizione. – 4. La determinazione della giurisdizione ecclesiastica ex can. 296: a) La natura gerarchica del rapporto delineato dal can. 296; b) Incidenza in argomento della diversa configurazione delle prelature personali.
I. Considerazioni generali
L’ottavo dei Principi direttivi per la revisione del Codex Iuris Canonici approvati dal Sinodo dei vescovi del 1967 intendeva inserire nell’ordinamento canonico una componente di elasticità nella determinazione della giurisdizione e nella definizione delle circoscrizioni pastorali della Chiesa1. Mentre, da una parte, confermava come prevalente e generale nell’organizzazione ecclesiastica il criterio territoriale, dall’altra segnalava la necessità di stabilire, “saltem ex iure extraordinario”, delle unità giurisdizionali determinate da altri criteri (il rito, la nazione di origine, ecc.) destinate alla cura pastorale dei rispettivi ceppi2. Inoltre, come concreta esigenza del moderno apostolato della Chiesa, proponeva l’opportunità di configurare adeguate unità giurisdizionali atte a portare a termine cure pastorali di natura specifica3.
L’obiettivo che mi sono prefissato in questa relazione è quello di esaminare in forma sintetica alcuni dei principali elementi utili alla delimitazione della giurisdizione ecclesiastica nell’ambito della relazione che intercorre fra i fedeli cristiani e i loro legittimi pastori all’interno di una comunità ecclesiale strutturata dal ministero episcopale, rilevando a tale riguardo alcuni dei fattori di elasticità ormai presenti nell’ordinamento della Chiesa4.
Sul piano sostanziale è chiaro che, com’è stato ricordato dalla lettera Communionis notio, della Congr. della Dottrina della Fede, il fedele viene incorporato mediante il battesimo all’unica Chiesa di Cristo che, nel contempo, appare sul duplice e immanente livello di Chiesa universale e Chiesa particolare. Tuttavia, pur entrando a far parte della Chiesa in questo modo, il documento citato ricorda che l’inserzione dei fedeli realizzata dal battesimo, cioè, in forma sacramentale, ontologica, richiede l’ulteriore determinazione (non necessariamente come successione temporale, ma come fattore appartenente ad un livello formale differente) delle concrete dipendenze giuridiche nell’ambito di comunità particolari di fedeli (diocesi ed altre strutture simili) istituite a questo scopo nella Chiesa5. La determinazione dei legami giuridici tra i singoli fedeli e i loro rispettivi pastori avviene, a questo punto, seguendo la logica imposta dal peculiare ordine giuridico che regge la struttura del collegio episcopale6, cioè, la logica dell’affidamento ai membri del collegio, da parte della suprema autorità della Chiesa, delle comunità cristiane individuate in modo distinto (le singole “portiones Populi Dei”), logica che diventa così uno dei punti di riferimento dello studio della giurisdizione ecclesiastica.
Ovviamente, non sarebbe legittimo volere ricondurre entro tali ambiti ogni possibile manifestazione di giurisdizione nella Chiesa; anche se non abbiamo ancora delimitato questo concetto, va anche premesso che concrete manifestazioni di giurisdizione ecclesiastica possono essere sicuramente rintracciate altrove, nell’ambito, per esempio, dell’organizzazione della vita consacrata o apostolica7, o negli istituti di natura accademica, come sono le università. Tuttavia, in questa relazione prenderemo in esame soltanto la prospettiva costituzionale del concetto di giurisdizione, quella che riteniamo più direttamente richiamata dall’ottavo Principio per la revisione del codice, riguardante appunto il rapporto di gerarchia determinatosi all’interno di comunità di struttura episcopale, cioè, la gerarchia che viene a crearsi nella Chiesa in base alla struttura sacramentale dell’episcopato.
Si tratta, in verità, di un argomento generale, non unicamente concernente l’ottavo dei Principi per la revisione; e tuttavia, la considerazione della giurisdizione ecclesiastica da questa concreta prospettiva risulta particolarmente utile, perché il presente contesto ci pone davanti a quelle che, probabilmente, rappresentano le più rilevanti “questioni limite” riguardanti l’idea di giurisdizione, come sono, ad esempio, il significato e limiti della potestà che spetta ai pastori nella Chiesa; la pluralità di rapporti giurisdizionali potenzialmente generati dalla struttura della Chiesa complessivamente considerata8; l’individuazione dei fattori rilevanti per delineare il coetus fidelium e per determinare il contenuto della giurisdizione; l’indicazione dei criteri adeguati ad un valido coordinamento tra i pastori, ecc.
II. L’idea di giurisdizione nell’ordinamento canonico
Dopo queste osservazioni preliminari, il primo argomento sul quale dobbiamo sicuramente soffermarci, con le riserve e i limiti che corrispondono ai tentativi di questo genere, riguarda la delimitazione di ciò che intendiamo qui per giurisdizione; ci interessa concretamente determinare quale sia l’uso che del termine fa l’ordinamento canonico (principalmente il codice del 1983), quale sia la natura e il contenuto materiale prevalente delle posizioni soggettive delineate dall’idea di giurisdizione, premesso che ci muoviamo nell’ambito costituzionale della Chiesa e, dunque, in relazione al genere di rapporti che intercorrono tra i fedeli e i propri pastori sulla base dell’operato dei sacramenti.
a) Il contenuto della giurisdizione nella Chiesa
Come si sa il termine “giurisdizione” è usato nell’ambito giuridico con significato diverso e non in eguali contesti. Mentre la dottrina giuridica civile circoscrive prevalentemente il termine all’esercizio del potere giudiziario, in diritto canonico, pur essendo presente una tale ristretta accezione tra gli autori, e perfino nel vigente codice di diritto canonico9, viene invece prediletto un uso più ampio della nozione di “giurisdizione”. In tale senso, il can. 129 CIC impiega il termine “giurisdizione” per contraddistinguere una dimensione della “potestas sacra”, la “potestas regiminis”10, allargando così il concetto di giurisdizione a tutto l’ambito dell’esercizio del potere di governo nella Chiesa.
Tuttavia l’esperienza ecclesiale mostra, in modo altrettanto chiaro, che il significato canonistico del concetto “giurisdizione”, forte soprattutto di una considerazione teologica della missione dei pastori nella quale tale “potestas” è compressa, debba andare ben al di là delle sole manifestazioni di esercizio della “potestas regiminis”, per indicare complessivamente quell’insieme di poteri e facoltà che, in termini generali, spettano all’autorità ecclesiastica per lo sviluppo delle proprie funzioni11. Come giustamente indicava d’Avack a proposito di nozioni quali autorità o potestà, con esse “non si viene a indicare il solo potere di comando e d’impero dell’ordinamento, ma si designa comprensivamente qualsiasi funzione e attività necessaria al medesimo per il conseguimento delle finalità proprie”12.
L’ordinamento canonico, infatti, non restringe alla sola potestà di governo il contenuto giuridico del rapporto costituzionale di gerarchia; all’interno di tale rapporto, o, quanto meno, in dipendenza più o meno diretta da esso, emergono anche altre situazioni soggettive attive rilevanti giuridicamente che, pur non essendo configurate come “potestà”, presuppongono comunque nel titolare (nel vescovo o, più in genere, nel pastore) una concreta investitura di “autorità” su di altri soggetti, vale a dire, un qualche genere di “giurisdizione”. Una prova di questo può essere, per esempio, il caso del can. 966 CIC, il quale, per la validità dell’assoluzione sacramentale chiede che il confessore “facultate gaudeat eandem in fideles (…) exercendi”; o il caso del can. 1110 CIC che, nell’ambito della disciplina matrimoniale, ammette come testimone qualificato all’ordinario o al parroco personali “intra fines suae dicionis”13. In questi e in altri casi analoghi la validità o la leceità di un determinato atto (spesso riguardante l’esercizio del ministero ricevuto o dell’ufficio di cui è stato investito) è vincolata all’esistenza di un previo rapporto stabile tra il pastore e il fedele.
La stragrande maggioranza delle attività dei pastori nei confronti dei propri fedeli che hanno come fondamento la funzione che ai primi è stata attribuita su questi ultimi – si pensi al ministero del vescovo diocesano, ma, in un’altra dimensione, anche a quello del parroco – , pur senza mancare di una concreta dimensione giuridica, delineante posizioni di legittimità o di illegittimità, che interessano la validità e la liceità degli atti, sfuggono ad un analisi impostata prevalentemente in termini di “potere” giuridico. Se consideriamo attentamente l’esperienza ecclesiale rileviamo che gli atti di stretto “potere” di giurisdizione – di potestas regiminis propriamente detta – che i pastori sono chiamati a compiere nei confronti dei fedeli loro assegnati sono significativamente esigui, mentre vaste e variegate risultano invece altro genere di attività – di contenuto catechistico, di promozione pastorale, di erogazione dei sacramenti, assistenziale, ecc. – che pur essendo esercitate sulla base di una “legittima investitura di autorità” su determinati fedeli (cioè, di una concreta giurisdizione), vengono adempiute in un contesto giuridico differente da quello specifico del “potere di giurisdizione”, che sostanzialmente risulta contraddistinto dalla libertà e dalla non vincolazione giuridica14.
Per tutto questo , come si ricorderà, era frequente in dottrina contrapporre una nozione stretta di giurisdizione15, intesa appunto come fondante del potere giuridico di comando esercitato dall’autorità ecclesiastica (il potere di giurisdizione), e un’altra nozione di giurisdizione lato sensu, avente anch’essa una dimensione giuridica non ristretta alle sole manifestazioni di potestà, che agiva piuttosto come “legittimante giuridico” all’esercizio della potestà di ordine (nel senso che la mancanza di “giurisdizione” avrebbe reso illecito – e in certi casi addirittura invalido – l’esercizio dell’ordine) e, per alcuni, anche di quella che in altri tempi veniva delineata come “potestà di magistero”, come categoría autonoma16.
La distinzione risponde, credo, alla realtà delle cose, e al diverso modo di come la dimensione formale del diritto appare rappresentata in differenti contesti, come sono le concrete ipotesi in cui esiste una vincolazione giuridica predeterminata e quelle altre circostanze in cui pur venendo configurata, più o meno genericamente, la responsabilità del pastore nei confronti di determinati fedeli, questi ultimi non si trovano affatto in una posizione di vincolazione, bensì di autonomia e di libertà.
b) I termini soggettivi del rapporto gerarchico nella Chiesa
Perciò, da una prospettiva soggettiva, la nozione di giurisdizione che meglio riesce a riflettere l’intera posizione attiva dell’autorità ecclesiastica (di chi è pastore) avente rilevanza giuridica, è quella lato sensu. Questa idea ampia di giurisdizione, che poi risulta coincidente con quella comunemente adoperata17, comprenderebbe la globale posizione giuridica propria di uno dei due termini soggettivi del rapporto costituzionale di gerarchia originato dall’interazione dei sacramenti del battesimo e dell’ordine sacro, o dovuto alla subordinazione propria dei vari gradi dell’ordine, se si tratta di chierici18. Essa sarebbe la risultante di concretizzazioni successive alla costituzione del rapporto instaurato dai sacramenti, per cui il pastore risulta investito di autorità nonché di specifici obblighi di assistenza riguardo determinati fedeli, o riguardo altri chierici19.
Da una prospettiva genetica, il momento costitutivo della giurisdizione ecclesiastica coincide con la concreta determinazione dei termini soggettivi del rapporto costituzionale di gerarchia, non potendo parlarsi propriamente di giurisdizione, né di sudditanza, fino a quando non siano identificati i soggetti titolari delle rispettive posizioni giuridiche: vale a dire, fino a quando non sia possibile sapere chi sia il parroco proprio di un fedele, chi il proprio vescovo, e, dalla parte opposta, quali siano i propri fedeli, o i membri del proprio presbiterio20. La gerarchia che i sacramenti instaurano nella Chiesa, assume in diritto la qualità precisa di giurisdizione solo in seguito alla concreta determinazione dei diritti e doveri soggettivi di ciascuno.
Tuttavia, pur trattandosi di due posizioni relative (quella delineata dalla giurisdizione e quella di sudditanza) che si corrispondono l’una all’altra, come abbiamo detto poc’anzi, il loro modo di rapportarsi in diritto non sempre segue uguali regole, onde evitare di restringere indebitamente gli ambiti di libertà dei sudditi, o allargare, anche impropriamente, i contenuti precisi della vincolazione giuridica.
La giurisdizione, in quanto posizione globale del soggetto investito di autorità sui propri fedeli, si snoda, come stiamo vedendo, in una pluralità di situazioni giuridiche concrete di vario genere e natura. Alcune di esse sono qualificabili come situazioni di potestà di giurisdizione, nel senso indicato dal can. 129 § 1 CIC; altre, invece, sono semplici facoltà, legittimazione per agire, e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di specifici doveri ministeriali di ufficio, più o meno prestabiliti21, più o meno discrezionali, di chi è stato investito di una precisa carica pastorale sui propri fedeli. Nei casi in cui al dovere d’ufficio dei pastori sui propri sudditi (chierici o fedeli laici che siano) non corrisponde in questi ultimi precise situazione di soggezione, le rispettive posizioni soggettive hanno un sistema di rapportarsi improntato dalle regole di libertà, autonomia e personale responsabilità, come recita il can. 208 riprendendo un testo della cost. Lumen gentium n. 3222.
In sintesi, la giurisdizione dell’autorità ecclesiastica serve soprattutto a disegnare l’ambito della “responsabilità pastorale” che nella Chiesa viene affidata ai pastori, e quindi risulta primariamente integrata non già da poteri, bensì da doveri di servizio e della conseguente “legittimazione” per attuare il ministero in tali ambiti, e su tali fedeli23.
III. La determinazione della giurisdizione ecclesiastica
Delineata così la natura e il contenuto della giurisdizione ecclesiastica, veniamo adesso al problema della sua determinazione.
Il rapporto gerarchico tra i membri della Chiesa diventa giuridicamente operante, come abbiamo detto, quando viene stabilito in modo certo il soggetto titolare della posizione di giurisdizione e quello che occupa la posizione di sudditanza. A prescindere del rapporto che a tutti i componenti della Chiesa ci lega alla suprema autorità, sappiamo che la giurisdizione dei singoli vescovi è determinata dalla missio canonica24, e sorge contemporaneamente alla presa di possesso dell’ufficio25; nel caso dei presbiteri e dei diaconi, invece, è l’incardinazione e la successiva provvista dell’ufficio ecclesiastico a determinare la giurisdizione che li riguarda, nei confronti del proprio vescovo e dei fedeli affidati, rispettivamente26. Infine, la posizione giuridica degli altri fedeli risulta in primo luogo determinata mediante il criterio territoriale del domicilio e del quasi-domicilio, come indica il § 1 del can. 107 CIC, e, secondariamente – anche sotto la codificazione del 1917 – con altre forme determinative come il rito proprio, la condizione professionale di militare o altre ad essa legate27, il luogo di provenienza28, e più recentemente ancora le varie forme di convenzione regolate dal diritto canonico, tra le quali spicca quella disegnata dal can. 296 a proposito delle prelature personali.
La novità che a questo proposito conteneva l’ottavo Principio per la revisione del CIC riguardava appunto l’inserimento nel regime ordinario del nuovo codice delle unità giurisdizionali personali (le circoscrizioni ecclesiastiche personali) in cui il rapporto di gerarchia stabilito dal battesimo poteva essere determinato da criteri diversi da quello del domicilio – il rito, la nazione di origine, ecc. – , “per lo meno assieme al criterio del territorio”29. Di fatto, le circoscrizioni stabilite fino ad oggi sulla base dei fattori personali non hanno in nessun caso precluso la concomitante rilevanza del territorio come “elemento di chiusura”, in modo da assicurare che l’attenzione pastorale della Chiesa arriva comunque a tutti i fedeli.
a) La distinta rilevanza giuridica della missio canonica dei vescovi
A proposito delle forme determinative della giurisdizione ecclesiastica, una prima questione che dobbiamo osservare riguarda la distinta portata teologica e giuridica che, a seconda dei casi, possiede la missio canonica ricevuta dai vescovi. Sarebbe strano, infatti, non poter rilevare un qualche genere di differenza tra la giurisdizione del vescovo che riceve una “propria” comunità di fedeli in affidamento, e quella di chi, malgrado la personale condizione episcopale, è soltanto un pastore “vicario” del Romano Pontefice30, o si limita, comunque, a coadiuvare un’altro vescovo che è “pastore proprio”31.
Da questo punto di vista, si può affermare che benché qualunque missio canonica dei vescovi risulti determinativa di funzioni episcopali personali, non in tutti i casi essa affida propriamente la direzione e il governo di un coetus fidelium gerarchicamente strutturato, e non sempre la missio canonica delinea nel vescovo una posizione di “pastore proprio” di una comunità di fedeli. Ciò è palese nel caso dei vescovi coadiutori e ausiliari; ma accade anche trattandosi di vescovi titolari la cui missio canonica non riguarda un coetus fidelium ecclesialmente strutturato come tale, come nel caso degli incarichi conferiti a determinati vescovi per coordinare, per conto della conferenza nazionale del paese a quo o ad quem, l’assistenza pastorale dei propri connazionali emigrati all’estero32.
Dal punto di vista sostanziale, la posizione di chi presiede come pastore proprio una comunità ecclesiale stabilmente costituita e unificata come tale, aventi, cioè, propria identità ecclesiale e una relativa autonomia all’interno della communio ecclesiarum, deriva dal fatto che egli impersona uno degli elementi ecclesiali costitutivi di tale genere di comunità: l’ufficio di pastore proprio. Come insegna la teologia cattolica, detto elemento rappresenta il fattore gerarchicamente strutturante della comunità diocesana33, quello che aggrega la comunità dei fedeli all’unità della Chiesa34.
Tale condizione di “pastore proprio” difetta invece quando l’incarico contenuto nella missio canonica del vescovo non riguarda un coetus fidelium ecclesialmente costituito, come accade nell’esempio dei vescovi incaricati della pastorale dei connazionali emigrati all’estero. In tale ipotesi vengono meno gli elementi di aggregazione e di autonomia del gruppo ecclesiale, il che, sotto il profilo del governo pastorale, si traduce in possibilità nettamente diverse per dare unità e compiutezza al piano pastorale nei confronti di tali generi di gruppi. Penso che ciò meriti di essere valutato nella prospettiva, appunto, di rendere ogni volta più organica l’attenzione pastorale di determinati ceppi di fedeli, strutturando ecclesialmente tali comunità, sotto un proprio pastore, unitamente ai pastori del luogo, ai quali si è necessariamente associati dai vincoli della comunione episcopale35.
b) Il concorso di rapporti di giurisdizione nell’esperienza della Chiesa
Un’altra osservazione riguarda la pluralità di rapporti giurisdizionali che, potenzialmente, è possibile intrattenere nel contempo. Ciò vale sia per quanto riguarda la posizione dei vescovi, presbiteri e diaconi, sia anche per i fedeli laici; in ciascuna di queste ipotesi, un soggetto può trovarsi inserito, in modo attivo o passivo, in diversi rapporti di giurisdizione ecclesiastica.
Come dimostra l’esperienza giuridica della Chiesa, frequentemente la posizione giuridica di uno stesso vescovo risulta plurima, articolandosi in giurisdizioni diverse. In molti casi risponde a limitazioni di carattere organizzativo che in nessun modo possono assurgere a paradigma della società ecclesiastica. Si pensi al caso frequente, spesso di carattere transitorio, del vescovo diocesano chiamato a svolgere contemporaneamente il ruolo di amministratore apostolico in un’altra diocesi36; al vescovo ausiliare, o addirittura, allo stesso vescovo diocesano, che in modo stabile svolge anche il ruolo di ordinario militare; al nunzio apostolico designato nel contempo a capo di un’amministrazione apostolica stabilmente eretta. Altre combinazioni analoghe si potrebbero aggiungere alle precedenti, sempre con riscontro nell’esperienza giuridica; e anche se in nessun caso riguardano situazioni ecclesialmente auspicabili, nel loro insieme rendono l’idea dei criteri di elasticità e del senso di realismo con cui, in determinate condizioni, viene realizzata la missio canonica dei vescovi, facendoli titolari di posizioni di giurisdizione differenti.
Analogo dev’essere il giudizio che merita la posizione degli altri chierici, presbiteri e diaconi che siano. Come sappiamo, al tradizionale istituto dell’incardinazione si sono affiancati di recente altri volti a stabilire, subordinatamente al legame di incardinazione, nuovi legami ministeriali con altri vescovi. È il caso, particolarmente, dell’istituto dell’addittio, del can. 271 § 2 CIC37, abitualmente adoperato dalle organizzazioni della mobilità del clero facenti capo alle diverse conferenze episcopali nazionali, che consente il temporaneo passaggio di chierici ad un’altra diocesi, nei termini stabiliti da una convenzione firmata dai due vescovi e dal chierico interessato38. Una situazione analoga, sebbene meno studiata sotto il profilo dottrinale, è rappresentata dal passaggio di un chierico ad un ufficio di natura sovra-diocesana, sia a livello di conferenza episcopale, sia soprattutto di curia romana39, dove il vincolo dell’incardinazione alla diocesi di origine resta quasi in sospeso davanti alla costituzione di un nuovo rapporto di giurisdizione.
Analogamente a tutto ciò, anche la posizione ecclesiale dei fedeli laici è suscettibile di rientrare, contemporaneamente, in una pluralità di rapporti di giurisdizione. Ciò non è stato merito della dottrina conciliare né tanto meno della nuova normativa codiciale. La possibilità di avere allo stesso tempo un proprio domicilio e un quasi-domicilio, indicativi ciascuno di un proprio vescovo ed un proprio parroco, poneva da tempo la questione della dualità di giurisdizioni alle quali era sottoposto lo stesso fedele, nonché della doverosa possibilità di scelta tra l’una e l’altra che, in determinati casi, gli si concedeva40.
A questo genere di concorsi di giurisdizione si sono aggiunti altri, man mano che la legislazione della Chiesa, sulla scia dell’ottavo Principio che stiamo considerando, ha ritenuto necessario conferire rilevanza delimitativa delle comunità cristiane, a determinati criteri di tipo personale, assieme all’elemento territoriale. Come si è detto prima, questo fatto viene a contestualizzare in termini di “non esclusività” il valore che, in ogni caso, possa avere la giurisdizione dei pastori, il che risulta particolarmente coerente con la prospettiva teologica della collegialità dell’episcopato.
Infatti, mentre la realtà pastorale della Chiesa fa vedere che sullo stesso fedele (chierico o laico che esso sia) possono concorrere, a diverso titolo, le giurisdizioni ecclesiastiche di vari pastori, la dottrina sull’episcopato dell’ultimo Concilio ci fa ritrovare nello spontaneo raccordo e coordinamento collegiale dei pastori (fondato nell’unicità di sacramento e di missione), il superamento di qualunque lettura della loro “potestas” in chiave “esclusivista” o “giurisdizionalista”.
c) Il carattere personale del rapporto di giurisdizione
Indipendentemente da quale sia stato il criterio delimitativo impiegato per costituirlo, il rapporto giurisdizionale è un rapporto “interpersonale” 41: le comunità cristiane strutturate dall’episcopato sono, innanzitutto, gruppi di persone, coetus fidelium, porzioni del Popolo di Dio. Di fatto, i vari criteri seguiti nella Chiesa per delimitare le persone appartenenti ai vari coetus (le cosiddette circoscrizioni ecclesiastiche) hanno soltanto un ruolo funzionale, puramente determinativo di un rapporto stabile che viene a costituirsi tra soggetti, potendosi esercitare in seguito la giurisdizione sui fedeli così individuati con indipendenza dalla dimensione territoriale. A ben guardare, com’è stato osservato di recente, le categorie legate al domicilio e al territorio, come quella di “incola” (residente o abitante) del can. 100 CIC, sono addirittura categorie nettamente personali, riguardanti cioè un soggetto personale indipendentemente dal luogo dove si trovi42. È possibile realizzare la stessa constatazione riguardo il codice del 1917.
Il can. 136 CIC segnala esplicitamente – e lo stesso fanno, per esempio, i cann. 87 e 91 CIC per il concreto caso della dispensa – che quantunque ci si trovi fuori dal territorio, si può esercitare la potestà esecutiva di giurisdizione nei confronti dei sudditi benché assenti dal territorio, se non consti diversamente dalla natura dell’oggetto o per disposizione del diritto43.
La permanenza del rapporto interpersonale di giurisdizione rappresenta, infatti, un criterio di carattere generale nell’ordinamento canonico, e si applica anche ai casi in cui non sia stato il territorio, bensì un criterio personale, a determinare la condizione di suddito. Per di più, si tratta di un principio che non unicamente riguarda l’esercizio della potestas regiminis di carattere esecutivo, come indica il can. 136 CIC, poiché uguale regola – sebbene con qualche secondario adattamento alla natura delle diverse materie – presiede anche nella Chiesa per quanto concerne la legittimazione dei pastori per esercitare atti ministeriali sui propri fedeli.
In tal senso, per esempio, un vescovo può amministrare la confermazione ai propri sudditi, anche fuori della diocesi, cosa che invece non può fare lecitamente nei confronti di chi non è suddito, neppure dentro al territorio della propria diocesi se si “oppone una espressa proibizione del loro ordinario proprio”44. La stessa logica emerge dal can. 1015 CIC nel precettuare che, a meno che non sia impedito da giusta causa, sia il proprio vescovo a ordinare i suoi sudditi. Trattandosi del sacramento della penitenza è, invece, ad validitatem che il can. 966 CIC prescrive la necessaria giurisdizione – ”facultate gaudeat” – nel ministro del sacramento; e, infine, tornando ad un esempio prima avanzato, il can. 1110 CIC, per la valida assistenza al matrimonio, limita la vigenza assoluta del criterio territoriale, riconoscendo giurisdizione all’ordinario e al parroco personali sui propri sudditi, “nei limiti della loro giurisdizione”45.
Come può osservarsi, la natura inter-personale del rapporto di sudditanza si rivela in questi casi perfino limitativo del criterio territoriale nel delimitare la giurisdizione. Determinato il rapporto gerarchico, questo mantiene ovunque la virtualità delle rispettive posizioni di giurisdizione e di sudditanza: il fedele, come precisa Michiels, rimane stabilmente affidato alla cura pastorale della propria autorità e, pur sottoposto alle leggi territoriali assolute del luogo dove si trova, è tuttavia obbligato ad osservare le leggi del proprio territorio quando la loro trasgressione rechi in esso qualche danno46.
d) L’incidenza della volontà nella determinazione della giurisdizione
Un’altra questione che va considerata riguarda l’incidenza della volontà dei soggetti nella determinazione del rapporto di gerarchia. Come si è detto, la questione non è nuova, né è sorta con la nascita delle circoscrizioni personali. Già nella disciplina anteriore al vigente codice di diritto canonico la pluralità di rapporti gerarchici che lo stesso fedele poteva stabilmente intrattenere a motivo della pluralità di domicilio e quasi-domicilio, configurava una apprezzabile libertà nel scegliere la giurisdizione che si voleva interpellare per ottenere, ad esempio, un qualunque atto di potestà ecclesiastica: possibilità ampiamente sfruttata, com’è noto, nei processi per nullità di matrimonio.
La rilevanza giuridica della volontà dei singoli per la costituzione della giurisdizione è stata addirittura apprezzata nell’ambito dei rapporti inter-rituali. Per esempio, all’Ordinario degli orientali in Francia – carica che, come si sa, spetta all’arcivescovo di Parigi – è dato riconoscere i gruppi e le associazioni di fedeli latini che vogliono vivere secondo le tradizioni, la spiritualità e la liturgia di una Chiesa orientale47. Un’altro esempio di ordine rituale proviene da un rescritto ex audientia del Segretario di Stato che, in relazione con la licenza richiesta dal can. 112 CIC per il volontario passaggio ad un altro rito, ha stabilito che, trattandosi di latini, la licenza della Santa Sede si presume qualora esista nel territorio una eparchia del rito orientale al quale voglia ascriversi il fedele, se i due vescovi manifestano per iscritto il proprio consenso48. I due esempi sono, comunque, manifestazioni concrete della rilevanza della volontà nella determinazione della giurisdizione ecclesiastica49.
Col Vaticano II sono apparse nella Chiesa nuove forme negoziali per costituire un nuovo rapporto giurisdizionale, sia da parte di presbiteri e diaconi che da parte di fedeli laici, mantenendo l’originario rapporto col vescovo di incardinazione o di domicilio. Né la natura pattizia di questo genere di accordi, né la posizione paritaria che al momento costitutivo della convenzione hanno, com’è logico, gli intervenienti, servono in alcun modo a precludere la subordinazione che risulterà tra loro dall’accordo, poiché, com’è noto, questa è per l’appunto una delle caratteristiche peculiari delle convenzioni di stampo pubblicistico50.
In termini complessivi, i vari casi di questo genere di adesione formale all’esercizio del ministero episcopale evidenziati dall’esperienza giuridica, pur avendo natura e contenuto abbastanza dissimili, evidenziano sempre l’incidenza della volontà nell’instaurazione di un rapporto giurisdizionale. E non pare che a tale scelta sia possibile eccepire obiezioni di natura dottrinale con un adeguato riscontro nella teologia cattolica. Si tenga in conto, d’altronde, che la stessa ordinazione ministeriale dei diaconi e dei presbiteri ha come requisito previo la formale manifestazione per iscritto (previa all’ordinazione, ma ripetuta inseguito, nel corso della liturgia del sacramento) dell’adesione del candidato al ministero del vescovo, con la corrispondente accettazione da parte del vescovo che lo incorpora al proprio presbiterio51.
Anche l’aggregazione di sacerdoti addetti in diocesi diversa da quella di incardinazione, effettuata in base al can. 271 CIC, evidenzia un intervento della volontà dei soggetti implicati – i due vescovi a quo e ad quem, oltre al chierico interessato – nel momento costitutivo dei nuovi rapporti giurisdizionali52: il loro triplice intervento diventa necessario nella misura in cui col nuovo accordo risulta in qualche forma modificata la posizione di tutti i tre soggetti rispetto dell’originario rapporto di giurisdizione. Allo stesso modo, il recente Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti della Congr. per il Clero, stabilisce che “il diacono, che, per giusti motivi, desidera esercitare il ministero in una diocesi diversa da quella di incardinazione, deve ottenere l’autorizzazione scritta dei due vescovi”53.
La virtualità costitutiva di rapporto giurisdizionale appare anche nell’atto di volontà dei fedeli laici, o dei religiosi non sacerdoti, che si recano in circoscrizioni o luoghi di missione, secondo quanto stabilito dall’istruzione Quo aptius, del 1969, della Congr. di Propaganda fide, e dalle note direttive Posquam apostoli, del 1980, della Congr. per il Clero. Questi due documenti, riguardanti direttamente l’aggregazione dei presbiteri secolari nelle circoscrizioni missionarie, prevedono anche per i laici che si recano nelle missioni (come per i religiosi non sacerdoti) la definizione dei loro diritti e doveri mediante la celebrazione di apposite convenzioni tra i due vescovi e l’assenso necessario dell’interessato54.
Infine, l’ipotesi delineata dal can. 296 (l’incorporazione di fedeli laici alle prelature personali mediante convenzione), pur rappresentando un’altra manifestazione di rilevanza giuridica della volontà nella determinazione della giurisdizione ecclesiastica, va invece collocata in un contesto diverso, sia teologico che giuridico, da quello appena accennato per i territori di missione. Infatti, il tipo di rapporto che nelle prelature personali presuppone la cooperatio organica indicata dal can. 296 CIC, per riferimento al noto passo del n. 11 della cost. dog. Lumen gentium55 (che, con una formula precisa e di grande densità teologica segnala in realtà la struttura basica – clerus-plebs – del Popolo di Dio), non rientra nell’orizzonte della posizione di “ausiliare laico” (intesa, cioè, come supplenza in ruoli specifici del ministro) nei confronti dell’esercizio ministeriale, così com’è delineata dai documenti poc’anzi menzionati56, bensì come il modo di rapportarsi nella Chiesa, senza alcun genere di subalternanze, ma d’accordo alla loro specifica virtualità teologica, il sacerdozio regale e il sacerdozio ministeriale.
Di per se, la previsione del can. 296 CIC per le prelature personali riguarda la costituzione di un nuovo rapporto di giurisdizione, non modificativo di altri preesistenti, e quindi bilaterale anziché trilatere, nel quale interviene, da un lato, il principio costituzionale gerarchico (in quanto la convenzione ha luogo nell’ambito di una comunità gerarchicamente strutturata, com’è la prelatura personale), e dall’altro il principio costituzionale di uguaglianza, perché il nuovo rapporto non è che una appropriata espressione della compartecipazione sacramentale tra chierici e laici alla missione della Chiesa57.
IV. La determinazione della giurisdizione ex can. 296
La possibilità legale di intrprendere questo genere di accordi per l’incorporazione di fedeli laici, suscita qualche ulteriore considerazione a proposito del carattere gerarchico (nel senso costituzionale prima accennato) del rapporto che in tali casi viene a delinearsi tra il fedele e l’autorità ecclesiastica costituita nella prelatura. L’insieme di elementi, giuridici e teologici, che rientrano in questo genere di convenzioni ci confermano, infatti, il carattere gerarchico del rapporto58..
a) La natura gerarchica del rapporto delineato dal can. 296
Infatti, premesso che il legislatore – seguendo il dettato del motu proprio Ecclesiae Sanctae e di altri documenti posteriori59 – ha voluto prevvedere che i fedeli laici possano intervenire attivamente nelle opere pastorali per le quali la Santa Sede erige una delle suddette prelature (venendo a delinearsi così una specifica funzione episcopale e, quindi, una specifica giurisdizione nella Chiesa), pare necessario ammettere che detto nuovo vincolo risulta instaurato in un contesto giuridico di natura gerarchica60. E ciò non unicamente perché non si vedrebbe altrimenti la novità della previsione normativa a parola (posto che la possibilità di costituire rapporti di tipo associativo era già presente nell’ordinamento canonico generale); né soltanto perché i termini di “organica cooperatio” indicati dal can. 296 CIC, segnalano con precisione (a meno che non venga trivializzato il concetto61), il contesto teologico in cui avviene il rapporto costituzionale di gerarchia (vale a dire, il contesto gerarchico proprio della relazione “clerus-plebs”); ma soprattutto perché il contesto gerarchico è quello spettante alla cooperazione dei fedeli cristiani (can. 296 CIC) in una funzione episcopale (in senso ecclesiale proprio), appositamente delineata dalla missio canonica62. Ciò risulta particolarmente evidente se, come avviene nel caso della prima prelatura personale, la realizzazione dell’opera pastorale prefissata è possibile soltanto per mezzo dell’organica cooperazione (nel senso teologico pieno) tra il sacerdozio regale e quello ministeriale, e non si raggiungerebbe invece col solo impegno ministeriale degli appartenenti all’ordine clericale incardinati nella prelatura sulla base dei cann. 265 e 294 CIC63.
Per questo motivo, riterrei legittimo affermare, in termini generali, che la cooperazione organica tra il sacerdozio regale e il sacerdozio ministeriale, intesa, cioè, nel senso costituzionale primario di rapporto tra i sacramenti che instaurano una struttura organica tra i fedeli, se fatta in un contesto episcopale proprio, vale a dire, laddove è stato istituito un potere episcopale, non può non avere natura di carattere gerarchico e delineare in ogni caso una posizione giuridica di giurisdizione64.
Il compito ecclesiale che svolge la convenzione di cui al can. 296 CIC nelle prelature personali può essere meglio considerato se, quanto meno in ipotesi, si riflette alla possibilità di adottare una simile convenzione nelle circoscrizioni ecclesiastiche (le diocesi, per esempio) che hanno già un definito coetus fidelium, perché i propri fedeli possano impegnarsi alle finalità pastorali della diocesi. In tali circostanze si potrebbe dire che una simile convenzione mancherebbe di senso teologico, proprio perché il suo oggetto, la cooperazione col vescovo e il suo presbiterio, rappresenta già un preciso obbligo di qualunque fedele diocesano sulla base del dovere battesimale di cooperare alla realizzazione della missione di Cristo. Nelle prelature personali, invece, gli impegni generati mediante queste convenzioni (il cui oggetto verrà delineato in armonia con le finalità pastorali per cui viene eretta la prelatura), pur appartenendo allo stesso ordine categoriale degli impegni battesimali – il raffronto è fatto, com’è ovvio, in prospettiva canonistica – , rappresentano comunque impegni nuovi, distinti specificamente da quelli assunti col battesimo, dovendo, di conseguenza, essere in qualche maniera manifestati e, quindi, accettati da entrambe le parti. Anche se non è questo il momento di sviluppare l’argomento, ritengo che, proprio questa somiglianza con gli impegni battesimali, ponga sulla pista di quale sia il contesto giuridico adeguato per analizzare tecnicamente gli obblighi assunti in forza del can. 296 CIC65.
b) Incidenza in argomento della diversa configurazione delle prelature personali
Nelle prelature personali costituite per determinate opere pastorali, il coetus fidelium chiamato a cooperare in detta specifica missione della Chiesa può essere determinato mediante la via del can. 296 CIC o, come si vedrà inseguito, anche per atto di autorità.
La prima prelatura personale che è stata eretta fa leva, come si sa, sul can. 296 CIC per determinare il coetus fidelium. Tuttavia, in prospettiva futura, ritengo che non sarà questa la via più frequente per la costituzione di prelature personali. Come ho già sostenuto altrove66, la configurazione giuridica che delle prelature personali fa l’ordinamento canonico, vale a dire, i quattro canoni codiciali più le restanti norme direttamente o indirettamente concernenti l’istituto, delineano questa struttura in modo abbastanza elastico, lasciando ai rispettivi statuti, concretamente aderenti alle singole necessità pastorali, modellare le caratteristiche strutturali che sono specifiche di ogni prelatura. E non è questo un discorso improntato sull’”ortoprassi”, a meno che le concrete necessità pastorali siano ritenute secondariamente rilevanti nella riflessione teologica sull’intero mistero della Chiesa.
Sono, infatti, pochissimi gli elementi contenuti nei cann. 294-297 CIC che riguardano le prelature personali in modo essenziale. Ad eccezione dei tre elementi soggettivi comuni a qualunque circoscrizione ecclesiastica – pastore proprio (il prelato), presbiterio (costituito, ovviamente, da clero secolare) e i fedeli laici – , e probabilmente anche, della concomitante dipendenza dall’ordinario locale – fattore d’altronde comune a tutte le circoscrizioni personali attualmente esistenti67 – , saranno gli statuti a precisare per ogni prelatura, con grande elasticità e realistica aderenza alle necessità pastorali, il tipo di attuazione operativa delle previsioni generali di questi precetti.
Per esempio, anche se il can. 295 riconosce al prelato il diritto di erigere un seminario e di incardinare proprio clero nella prelatura, può darsi che, in determinati casi, una tale possibilità non possa essere attuata o risulti meno opportuna. In talune occasioni potrebbe essere più conveniente, come fanno ordinariamente altre circoscrizioni ecclesiastiche, far leva, per esempio, sul clero del territorio, o fare ricorso al clero addetto di cui parla il can. 271 §§ 1-2 CIC, o al clero regolare – previe le necessarie licenze del rispettivo superiore – , per sovvenire, quanto meno in parte, all’attenzione pastorale dei fedeli affidati al prelato, senza che ciò modifichi essenzialmente la natura giuridica della prelatura.
A maggior ragione, la via della convenzione disegnata dal can. 296 perché i fedeli laici possano incorporarsi è soltanto una possibilità attuativa, non essenzialmente caratterizzante la figura stessa delle prelature personali68. Penso, infatti, che l’appartenenza di fedeli laici alle prelature personali potrà essere più frequentemente stabilita – con tutta l’elasticità e la varietà richiesta dalle concrete necessità pastorali che pongono i singoli gruppi di fedeli – seguendo la via della determinazione ex auctoritate del coetus fidelium nell’atto costitutivo della circoscrizione da parte del Sommo Pontefice.
Le prelature verrebbero così erette relativamente ad un ceppo stabile di fedeli – determinato per la nazionalità, la razza, le circostanze di lavoro, ecc. – , in riferimento ad un ambito geografico, determinato ma variabile per ciascuna – cioè, di carattere nazionale, regionale, continentale, ecc. – , e, infine, con le connessioni strutturali, e anche di tipo patrimoniale, che in ogni caso risultino più opportune: se la prelatura è di ambito nazionale (o riguarda, per esempio, i connazionali all’estero) pare naturale la connessione con la rispettiva conferenza episcopale nazionale; se di ambito continentale, potrà avere un collegamento (se sembra opportuno) con la relativa Unione internazionale di Conferenze episcopali. Potrà, infine, dipendere da un dicastero (si pensi, per esempio, all’evoluzione possibile di alcune concrete manifestazioni della pastorale della mobilità umana in rapporto al Pont. Consiglio della pastorale per i Migranti e gli itineranti69); e, in ultima istanza, dovrà sottostare, come le restanti circoscrizioni ecclesiastiche, ad una delle congregazioni romane competenti per ragioni del territorio: la Congr. per i Vescovi70, quella per l’Evangelizzazione dei popoli, se l’attività pastorale della prelatura riguarda territori di sua competenza71, o addirittura la Congr. per le Chiese orientali, se viene eretta una di queste strutture per agire soltanto nei territori della sua competenza72.
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1 Cfr. A. Del Portillo, Dinamicidad y funcionalidad de las estructuras pastorales, in “Ius Canonicum” 9, 1969, pp. 305-329.
2 Per determinare meglio l’orizzonte concettuale del momento storico, è utile ricordare che all’epoca diversi paesi contavano già con un proprio Vicariato castrense regolarmente eretto sulla base dell’istr. Sollemne semper, della S. Congr. Concistoriale, del 23 aprile 1951, AAS 43 (1951) 562-565; che dal 1930 erano stati eretti in varie nazioni ordinariati per fedeli di rito orientale (cfr. ad es., S. Congr. per le Chiese orientali, decreto. del 24 maggio 1930, AAS 22 (1930) 346-354); e che con la cost. ap. Omnium Ecclesiarum, del 15 agosto 1954, papa Pio XII aveva eretto in prelatura territoriale la Mission de France. Inoltre, un anno prima dell’approvazione dei Principi, il 6 agosto 1966, era stato anche promulgato il motu pr. Ecclesiae Sanctae, il cui cap. I, n. 5 consentiva l’erezione di prelature personali “ad peculiaria opera pastoralia vel missionaria perficienda pro variis regionibus aut coetibus socialibus, qui speciali indigent adiutorio” (AAS 58 (1966) 757-787).
3 Cfr. Sinodo dei vescovi, Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant, n. 8, in “Communicationes” 1, 1969, pp. 77-86.
4 Per una trattazione complessiva dell’argomento, in prospettiva costituzionale, vedi J. Hervada, Diritto costituzionale canonico, Milano, 1989, pp. 172 ss.
5 Cfr. Congr. della Dottrina della Fede, Litterae “Communionis notio” ad Catholicae Ecclesiae Episcopos de aliquibus aspectibus Ecclesiae prout est communio, n. 10, del 28 maggio 1992, AAS (1993) 838-850.
6 In altri lavori mi sono già occupato di questo argomento. Si veda, come sintesi, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, capitolo III, “Delimitazione della funzione pastorale nei liveli strutturali della Chiesa”, Milano, 1997,
7 Vedi in merito T. Rincón-Pérez, Commento al can. 596, in ComEx II/2, 2ª ed, Pamplona, 1997, pp. 1467-1473. Tuttavia, per quanto riguarda l’origine e la trasmissione di questa giurisdizione, pare del tutto necessario un ulteriore approfondimento della potestà di governo di cui si parla nel can. 596 § 2 CIC (vedi anche can. 134 § 1 CIC, relativo alla condizione di Ordinario), nell’ambito delineato dalla moderna ecclesiologia e dal fondamento sacramentale ed origine episcopale della potestà di regime nella Chiesa. Infatti, nei casi in cui l’elezione dei Superiori maggiori non richiede di essere confermata (cfr. can. 625 § 1 CIC, ref. can. 178 CIC), l’origine ope legis della potestà di cui al can. 596 § 2 CIC rappresenta un’eccezione che richiederebbe adeguati fondamenti. In materia, sull’argomento, vedi D. J. Andrés, Commento al can. 625, in ComEx II-II, cit., p. 1562; ; G. Ghirlanda, Il Diritto nella Chiesa, mistero di comunione, Milano, 1990, p. 184; V. De Paolis, La vita consacrata nella Chiesa, Bologna, 1992, p. 213.
8 Il problema della determinazione della giurisdizione riguarda per forza tutti i soggetti intervenienti nel rapporto di gerarchia, secondo modalità e tecniche proprie a ciascun tipo di soggetto; tutti i membri della Chiesa sono in qualche modo sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica di altri soggetti: in primo luogo, coloro che sono giunti ad uno dei gradi del sacramento dell’ordine – vescovi, presbiteri, diaconi – , e secondariamente anche gli altri fedeli. In un caso e nell’altro il diritto canonico impiega un diverso genere di tecniche capaci di determinare il rapporto gerarchico, che in ogni caso sono aderenti allo statuto teologico di ciascun soggetto e alla tradizione storica della Chiesa.
9 Cfr. cann. 1417 § 2; 1469 § 1; 1512, 3º CIC: tuttavia, il can.129 § 1 CIC è chiaro nel non volere restringere il concetto al solo ambito giudiziale. In dottrina, vedi, per es., F. della Rocca, Giurisdizione ecclesiastica, in “Novissimo Digesto italiano” VII, Torino, 1961, pp. 1034-1040. Vedi inmerito le osservazioni di B. Ojetti, Commentarium in Codicem iuris canonici. II. De personis, Romae, 1930, pp. 155 s., e nota nº 2.
10 Per la distinzione tra i due concetti, vedi J.I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, Milano, 1997, pp. 41 ss.; A. Viana, Organización del gobierno de la Iglesia, Pamplona, 1995, pp. 40 ss.
11 Cfr. S. Lariccia, Giurisdizione ecclesiastica, in “Enciclopedia del diritto” XIX, Milano, 1970, pp. 469 ss. Sulla potestà di giurisdizione, vedi J. Hervada, Diritto costituzionale canonico, cit., pp. 243 ss.
12 Cfr. ; P.A. d’Avack, Autorità ecclesiastica, in “Enciclopedia del diritto” IV, Milano, 1959, p. 487; Idem, Chiesa cattolica, in “Enciclopedia del diritto” VI, Milano, 1960, pp. 926 ss.; S. Lariccia, Giurisdizione ecclesiastica, cit., p. 470.
13 Il Codice impiega il sostantivo “dicio-onis” in senso equivalente, al meno in parte, a quello di giurisdizione. Di fatto, le traduzioni inglese e spagnola del testo del Codice hanno tradotto rispettivamente come “jurisdiction” o “jurisdicción” il sostantivo “dicio-onis”, mentre la traduzione francese impiega il sostantivo “ressort” e quella tedesca il più ampio termine di “Bereichs”, che comunque risultano sempre prossime in questo contesto. Serve, per esempio, per indicare l’ambito in cui vengono esercitate autoritativamente le funzioni affidate al legato pontificio (cann. 364, 365 § 2 CIC), o la circoscrizione ecclesiastica in cui agisce il vescovo diocesano (cann. 790 § 2; 883 § 1; 971; 1017 CIC), o, in forma ancora più generale, come ambito di esercizio della propria autorità pastorale o di governo (cann. 968 § 1; 974 § 4; 1110 CIC), ma non unicamente in ciò che esse hanno di esercizio del potere giuridico nel senso del can. 129 CIC.
14 Questa varietà di contenuti compresi nel compito dei pastori è stata sottolineata dal Concilio Vaticano II indicando, a proposito dei vescovi, che “reggono le Chiese particolari a loro affidate, come vicari e delegati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità” (cost. dog. Lumen gentium, n. 27); cfr. P.A. d’Avack, Autorità ecclesiastica, cit., passim.
15 Si veda in merito S. Lariccia, Giurisdizione ecclesiastica, cit., p. 470, e gli autori da lui segnalati.
16 Cfr. X. Wernz-P.Vidal, Ius Canonicum II, De personis, Romae, 1943, pp. 62 ss.; B. Ojetti, Commentarium in Codicem iuris canonici. II. De personis, cit., pp. 155 s.; J. Hervada, Diritto costituzionale canonico, cit., pp. 240 ss. Si noti, tuttavia, che questa idea di giurisdizione non corrisponde semplicemente alla potestà di ordine, bensì alla legittimazione giuridica per esercitare l’ordine ricevuto.
17 Semmai, una qualche diversità nel modo di adoperare questa idea di giurisdizione dovrà riguardare il distinto modo di applicare la nozione di gerarchia – come dal resto accade con altre nozioni che le sono vicine, come quella di “pastore proprio” – per rapporto ai diversi gradi del sacramento dell’ordine. Per lo studio dottrinale della questione, vedi per tutti A.S. Sánchez-Gil, Commento al can. 519, in ComEx II, cit., pp. 1225-1230, e bibliografia citata.
18 La posizione, cioè, di chi è investito di giurisdizione e quella che l’ordinamento canonico, anche quello in vigore, sempre attento a non urtare la sensibilità con l’uso delle parole, non esita a qualificare di suddito: vedi, ad es., cann. 87 § 1; 91; 136, CIC, ecc. Cfr. in dottrina, X. Wernz-P.Vidal, Ius Canonicum II, De personis, cit., p. 66.
19 Certe volte, l’ordinamento affida in modo speciale ad un soggetto determinate funzioni ministeriali, investendolo nel contempo dei relativi doveri d’ufficio, senza necessariamente sancire poi con la nullità gli atti che in tale ambito possano compiere altri ministri, la cui iniziativa però, in circostanze ordinarie, risulta comunque delegittimata. Ciò avviene, alle volte, con indicazione tassativa del contenuto di tali funzioni da parte dell’ordinamento, come accade, per esempio, con le funzioni parrocchiali specialmente affidate al parroco in forza del can. 530 CIC. Più comunemente, però, l’ordinamento indica soltanto in forma generica i doveri di ufficio dei ministri titolari, e concedendogli nel contempo ampi spazi di discrezionalità nell’attuazione concreta di tali impegni giuridici.
20 La confusione tra il piano costituzionale o sacramentale e quello tecnico ed operativo del diritto canonico, con la conseguente trivializzazione della rilevanza che hanno i fattori determinativi dell’autorità, è stata, come si sa, una delle più ricorrenti caratteristiche del dibattito canonistico posteriore al Concilio Vaticano II attorno alla sacra potestas.
21 Particolare importanza rivestono a questo riguardo i direttori riguardanti i vari aspetti dell’attività ministeriale, in quanto designano intere attività pastorali.
22 Vedi in merito J. Hervada, Diritto costituzionale canonico, cit., 117 ss. C’è inoltre da rilevare che, nel caso dei chierici, l’ambito di responsabilità e di autonomia comprende addirittura determinati aspetti dell’esercizio del proprio ministero il quale, pur dipendendo “complessivamente” dal rispettivo vescovo, per molti versi è lasciato tuttavia alla responsabilità che a ciascuno di loro compete come battezzati e come presbiteri (non è, infatti, una responsabilità che riguardi soltanto il vescovo). Questa realtà pone di rilievo il mancato fondamento delle pretese di fare il vescovo responsabile delle condotte eccepibili dei propri presbiteri, sulla base di un rapporto di soggezione che risulta invece precisamente delimitato.
23 Cfr. X. Wernz-P.Vidal, Ius Canonicum II, De personis, Romae, 1943, pp. 62-63; P.A. d’Avack, Autorità ecclesiastica, cit., p. 492.
24 Il Concilio Vaticano II ha preferito, tuttavia, parlare al riguardo di comunione gerarchica (cfr. G. Ghirlanda, Hierarchica communio, Roma, 1980, passim). Le relative lettere di nomina possono eventualmente delimitare il contenuto della giurisdizione. Invece, la posizione di sudditanza dei vescovi nei confronti dell’ufficio primaziale, pare in realtà legata, non da un punto di vista disciplinare bensì sostanziale, alla valida ordinazione episcopale, piuttosto che all’appartenenza al collegio dei vescovi.
25 Cfr. can. 131 § 1; 145 § 2; 382 § 1 CIC, ecc.
26 Come ha indicato di recente il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, nel caso dei presbiteri l’incardinazione in una Chiesa particolare, in un ordinariato militare o in una prelatura personale li incorpora ad un presbiterio, che rappresenta uno degli elementi soggettivi strutturanti delle comunità gerarchiche (cfr. Congr. per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, n. 25, del 31 gennaio 1994, Città del Vaticano, 1994); questo dato non trova riscontro, invece, nell’idea di presbiterio e di prelatura personale proposta da Aymans: cfr. W. Aymans-K. Mörsdorf, Kanonisches Recht. Lehrbuch aufgrund des Codex Iuris Canonici II, Paderborn, 1997, p. 747.
27 Cfr. S. Congr. Concistoriale, istruzione Sollemne semper, de Vicariiis Castrensibus, del 23 aprile 1951, AAS 43 (1951) 562-565; cost. ap. Spirituali militum curae, del 21 aprile 1986, AAS 78 (1986) 481-486.
28 Cf. cost. ap. Exul Familia, del 1 agosto 1952, n. 32, AAS 44 (1952) 649-704; vedi anche S.Cong. Consistorialis, Declaratio del 21 novembre 1966, in X. Ochoa, Leges Ecclesiae III, coll. 5063-5064; motu pr. Stella maris, del 31 gennaio 1997, AAS 89 (1997) 209-216. Si veda in merito il mio lavoro La parrocchia come comunità di fedeli e soggetto canonicamente unitario, in AA.VV., “La parrocchia”, Studi Giuridici 43, Città del Vaticano, 1997, pp. 21-36.
29 Da questa espressione sembra potersi cogliere che, al tempo in cui veniva auspicata la creazione di strutture personali, non si nascondevano del tutto i dubbi riguardo la possibilità di una totale eliminazione del criterio territoriale, e ciò rappresenta, a mio giudizio, la vera questione di fondo ribadita nel parere della Plenaria del 1981 a proposito delle strutture personali. Cfr. Pont. Cons. de Legum Textibus Interpretandis, Acta et documenta Pontificiae Commissionis Codici Iuris Canonici Recognoscendo, Congregatio plenaria diebus 20-29 octobris 1981 habita, 5ª quaestio de Praelatura personalis, Città del Vaticano, 1991, p. 390.
30 Cfr., per es., can. 371 CIC: in merito, vedi J.I. Arrieta, Chiesa particolare e circoscrizioni ecclesiastiche, in “Ius Ecclesiae” 6, 1994, pp. 3-40.
31Cfr. cost. dog. Lumen gentium, n. 21. Anche se la sacra potestas di cui godono i vescovi non procede dal Romano Pontefice, è indubbio che, dal punto di vista giuridico formale, il capo del collegio compie una funzione determinativa individuando nuove porzioni del popolo di Dio (erigendo, cioè, circoscrizioni ecclesiastiche) e affidando incarichi pastorali ai vescovi al momento della missio canonica; in tale senso, la sua attività determinativa comporta un ruolo costitutivo, non di gerarchia (che è instaurata dai sacramenti), bensì di giurisdizione.
32 Cfr. ad esemio, Statuta Conferentiae episcoporum catholicorum Hungariae, del 28 ottobre 1996, art. 2, e); Statuta Conferentiae episcoporum Slovachiae, del 23 marzo 1993, art. 3 § 1.
33 Lo stesso accade nelle restanti circoscrizioni ecclesiastiche, anche in quelle non affidate di regola ad un vescovo. È il caso, ma non esclusivamente, delle prefetture apostoliche e delle missioni sui iuris: come ho detto altrove, ciò sembra giustificato sulla base del particolare legame con la funzione primaziale di queste circoscrizioni che non possono ritenersi pienamente come Chiese particolari (cfr. J.I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, cit., pp. 224; 355-358).
34 La tradizione canonica riserva il concetto di “potestà propria” a chi riceve un ufficio a capo di una comunità stabilmente costituita per indicare, in prospettiva di servizio, l’inderogabile responsabilità che si assume nei confronti di quanti lo integrano. Cfr. can. 131 § 2 CIC; in dottrina, vedi di recente, A. Viana, Commento al can. 131, in ComEx I, cit., pp. 848 ss., e la bibliografia da lui segnalata.
35 In tale senso, Baura ha prospettato, per es., l’eventuale creazione di qualche prelatura personale per la pastorale marittima, nell’ambito delle conferenze episcopali di una regione (cfr. E. Baura, Apostolato marittimo. Cenni storici e profili giuridici alla luce del motu proprio “Stella maris”, in “People on the move” 26, settembre 1997, p. 36; per un studio di questo motu proprio, vedi anche A.S. Sánchez.Gil, Nota alla Lettera apostolica “motu proprio” sull’apostolato marittimo Stella Maris, in “Ius Ecclesiae” 9, 1997, pp. 789-800.
36 Il can. 461 § 2 CIC consente, in queste ipotesi, di riunire eventualmente un unico Sinodo diocesano per le due diocesi: cfr. can. 356 § 2 CIC’17; G. Corbellini, Commento al can. 461, in ComEx, II/2, 2ª ed., Pamplona, 1996, pp. 1000-1002.
37 Per il testo di questo genere di convenzione approvato dalla CEI, si veda, nel caso di sacerdoti religiosi, Notiziario CEI 1984, pp. 215-219; nel caso di sacerdoti secolari, Notiziario CEI 1985, pp. 635-639; in dottrina vedi J.M. Ribas, Incardinación y distribución del clero, Pamplona, 1971.
38 Cfr. per esempio S. Congr. per i Chierici, Notae directivae Postquam apostoli, n. 26, del 25 marzo 1980, AAS 72 (1980) 343-364.
39 L’art. 13 § 1, 1 del Regolamento generale della Curia romana richiede per ciò “il nulla osta del rispettivo Ordinario”, nella terminologia di curia significativamente chiamato “ubi maior”; per l’eventuale rientro in diocesi, l’art. 45 § 2 prevede la richiesta del Vescovo accettata dalla Santa Sede o la disposizione della Sede Apostolica, preso contatto col Vescovo competente.
40 Cfr. can. 94 CIC 1917.
41 Al margine, com’è ovvio, del carattere territoriale assoluto che è proprio di alcun tipo di norme, come lo sono quelle di ordine pubblico, quelle concernenti la formalità degli atti o riguardanti gli immobili, o delle norme da applicare ai girovaghi, proprio perché mancanti di un altro tipo di rapporto gerarchico (cfr. can. 13 CIC); in argomento, si veda J. Otaduy, Commento al can. 13, in ComEx, I, 2ª ed., cit., pp. 333-334.
42 Cfr. J. Otaduy, Commento al can. 13, in ComEx, I, 2ª ed., cit., p. 333. Sulle manifestazioni del principio di territorialità nella Chiesa, vedi G. Feliciani, La dimensione ‘spazio’ nel nuovo Codice di diritto canonico, in “Raccolta di scritti in onore di Pio Fedele” I, Perugia, 1984, pp. 437 ss.
43 Cfr. can. 201 CIC’17; in dottrina, vedi H. Franceschi, Commento al can. 136, in ComEx I, 2ª ed., cit., pp. 876-880; J.I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesistica, cit., pp. 55-56.
44 Cfr. can. 886 CIC.
45 Per la valida e lecita assistenza al matrimonio durante il viaggio per mare da parte dei cappellani, si veda motu pr. Stella maris, cit., VII, § 3.
46 Cfr. can. 13 § 2, 1º CIC; G. Michiels, Normae generales juris canonici, 2ª ed, Parisiis-Tornaci-Romae, 1949, p. 377. Per la nozione di leggi territoriali assolute, vedi anche J. Otaduy, Commento al can. 13, cit., p. 333.
47 Cfr. Congr. per le Chiese orientali, Declaration interpretative du decret du 27 juillet 1954, del 30 aprile 1986, AAS 78 (1986) 784-786.
48 Cfr. Segretria di Stato, rescritto ex audientia del 26 novembre 1992, in “Communicationes” 24, 2, 1992, p. 200.
49 In argomento, vedi di recente il lavoro di T. Blanco, La noción canónica de contrato, Pamplona, 1997.
50 In senso opposto, si veda G. Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa. Mistero di comunione, Cinisello Balsamo/Roma, 1990, p. 166.
51 Vedi in tale senso i can. 273 CIC relativi ai diritti e doveri dei chierici, nonché i can 1026; 1034; 1036 CIC riguardanti l’emissione di volontà.
52 Il § 1 del can. 271 CIC prevede che “mediante una convenzione scritta con il vescovo diocesano del luogo a cui sono diretti, vengano definiti i diritti e doveri dei chierici in questione”.
53 Cfr Congr. per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti, n. 3, del 22 febbraio 1988, Città del Vaticano, 1988.
54 Cfr. S. Congr. di Propaganda fide, istr. Quo aptius del 24 febbraio 1969, B, 1, AAS 61 (1969) 276-281; S. Congr. per il Clero, notae dir. Postquam apostoli, n. 26, del 25 marzo 1980, AAS 72 (1980) 343-364; cfr. anche motu pr. Ecclesiae Sanctae I, n. 3 §§ 3-5, del 6 agosto 1966, AAS 58 (1966) 757-758.
55 Sul contesto costituzionale del concetto, nella prospettiva del n. 11 della cost. dog. Lumen gentium, vedi J. I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, cit., pp. 108 s.; vedi anche J. Hervada, Diritto costituzionale canonico, cit., pp. 181 ss.
56 Pare che gli “ausiliari laici” menzionati nel n. 26 delle notae dir. Postquam apostoli del 1980, che assieme ai vescovi a quo e ad quem sottoscrivono l’apposita convenzione, è una figura sostanzialmente prossima a quella dei fedeli laici che il can. 784 CIC indica come missionari “mandati dalla competente autorità ecclesiastica a compiere l’opera missionaria”. Tuttavia, con ciò non intendiamo minimamente precludere la possibilità che in determinate ipotesi, quando il ruolo del laico recatosi nelle missioni risponda allo specifico compito teologico che nella Chiesa è proprio della condizione del fedele laico, sia propriamente instaurata una vera e propria “coorperatio organica” tra loro e i ministri sacri.
57 La distinta posizione giuridica del fedele laico in un caso e nell’altro non risulta invece rilevata in G. Ghirlanda, Significato teologico-ecclesiale della territorialità, in “Synaxis” XIV/1, 1996, p. 262; idem, Il diritto nella Chiesa. Mistero di comunione, Cinisello Balsamo/Roma, 1990, p. 166.
58 L’evoluzione dell’ordinamento canonico nei quindici anni di vigenza del Codice di diritto canonico è statato ugualmente uniforme nel raffermare il carattere gerarchico delle prelature personali, nonché del rapporto giuridico che in esse viene stabilito nei confronti dei chierici e dei fedeli laici. Penso, per esempio, all’elenco delle circoscrizioni ecclesiastiche contenuto nell’art. 6 § 1 del Concordato fra la Santa Sede e la Repubblica di Polonia del 25 marzo 1998, AAS 90 (1998) 310-329, o nell’art. 5 del Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica di Croazia circa questioni giuridiche (Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica di Croazia circa l’assistenza religiosa ai fedeli cattolici membri delle forze armate e della polizia della Repubblica di Croazia), del 19 dicembre 1996, AAS 89 (1997) 277-302, o nel più recente accordo col Gabon: in tutti questi casi la prelatura personale viene enumerata assieme alle altre circoscrizioni ecclesiastiche, seguendo l’elenco riportato dall’Annuario Pontificio. Anche il n. 25 del “Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri” pubblicato dalla Congr. per il Clero il 31 gennaio 1994, afferma l’esistenza di un proprio presbiterio negli ordinariati militari e nelle prelature personali, istituti che vengono considerati come “strutture pastorali eventualmente esistenti nella diocesi” nel recente “Formulario per la relazione quinquennale”, III.4, pubblicato dalla Congr. per i Vescovi (Città del Vaticano, 1997). L’unica prelatura personale attualmente esistente conta anche con un proprio tribunale che ha come tribunale di appello il Tribunale del Vicariato di Roma (cfr. cost. ap. Ecclesia in Urbe, art. 40 § 1, dell’1º gennaio 1998, AAS 90 (1998) 177-193).
59 Cfr. motu pr. Ecclesiae Sanctae, I, n. 4, AAS 58 (1966) 757-787; cost. ap. Regimini Ecclesiae universae , art. 49 § 1, del 15 agosto 1967, AAS 59 (1967) 885-928; Congr. per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, n. 172, del 22 febbraio 1973, Città del Vaticano, 1973.
60 Il che, necessariamente comporta l’appartenenza di questi fedeli al coetus fidelium che rappresenta la prelatura personale. Aymans afferma, invece, che non ha senso parlare in questi casi di incorporazione giuridica alla prelatura personale, ma tale asserzione risulta sprovvista di argomenti e soprattutto non fa i conti con l’insieme dei dati giuridicamente rilevanti in materia emersi negli ultimi quindici anni nell’ordinamento canonico (cfr. W. Aymans-Kl. Mörsdorf, Kanonisches Recht. Lehrbuch aufgrund des Codex Iuris Canonici II, Paderborn, 1997, p. 743).
61 A mio modo di vedere, è ciò che accade quando il concetto viene tolto del suo contesto costituzionale, in rapporto al già menzionato n. 11 della cost. dog. Lumen gentium: si veda, per es. A. Celeghin, Prelatura personale: problemi e dubbi, in “Periodica” 82, 1993, pp. 129-136.
62 Sia nell’ipotesi del can. 296 CIC che in altri casi simili presenti nell’ordinamento della Chiesa, la volontà dei soggetti passivi (dei fedeli laici, in questo caso) non determina, ovviamente, l’indole gerarchica della relazione giuridica: essa serve unicamente ad allacciare il rapporto giuridico stesso (poiché la circoscrizione deve far leva su criteri personali per rendere oggettivi i rapporti intersoggettivi), ma la natura giuridica del rapporto minimamente dipende dal fatto volontario. Ciò che, invece, inerisce nell’indole gerarchica del rapporto derivante è, prima di tutto, la posizione giuridica di gerarchia con cui, nell’ambito dell’attività pastorale su cui versano tali convenzioni, è stata configurata la funzione episcopale del Prelato per mezzo della missio canonica ricevuta dal Capo del Collegio. Il rapporto in se stesso è gerarchico perché così è delineata (dalla missio canonica e dalla norma) la posizione giuridica del Prelato nei confronti dell’attività pastorale che gli viene affidata dalla missione pastorale, e rispetto dei rapporti da allacciare con coloro che intendono compartecipare alla sua carica pastorale. Si veda in tale senso, cost. ap. Ut sit, art. III, cit., nonché Congr. per i Vescovi, Declaratio Prelaturae personalis, n. III, del 23 agosto 1982, AAS 75 (1983) pars. I, 464-468.
63 Questo concreto discorso, com’è ovvio, serve soltanto per le prelature personali in cui il “coetus fidelium” sia delimitato per la via convenzionale indicata dal can. 296 CIC: il problema non si pone, invece, quando il “coetus fidelium” risulti definito ex auctoritate, nell’atto erettivo della prelatura, stabilendo un rapporto gerarchico.
64 Come è noto, il testo redazionale precedente di questo can. 296 CIC parlava di “incorporazione” dei fedeli alle prelature personali. Non ci sono tracce dei motivi che portarono in seguito alla sostituzione del termine “incorporazione” per quello definitivo di “cooperazione organica”: la mancanza di continuità con la riflessione precedente in argomento fa pensare piuttosto ad un cambiamento non sufficientemente maturato e probabilmente condizionato da circostanze contingenti. Tuttavia, ambedue le espressioni risultano intercambiabili, e la seconda, in prospettiva della dottrina del Vaticano II, ha una densità teologica che difetta invece nell’idea, un tanto giurisdizionalista, di “incorporazione”.
65 Ho approfondito l’argomento in “Considerazioni sulla giurisdizione ecclesiastica determinata per via convenzionale ex can. 296 CIC”. Si tratta di un lavoro, preparato sulla base del presente testo, destinato agli Studi in onore del Prof. Javier Hervada che prepara l’Istituto Martin del Azpilcueta dell’Università di Navarra.
66 Cfr. J.I. Arrieta, Le circoscrizioni personali, cit., pp. 231-234.
67 L’unica eccezione che si può menzionare a questo riguardo è quella dell’ordinariato argentino per i fedeli orientali (cfr. Congr. per le Chiese orientali, decreto del 19 febbraio 1959, AAS 54 (1962) 49-50.
68 Sulla stessa linea, non credo, neanche, alle possibilità reali di prelature personali costituite soltanto da chierici: l’esperienza giuridica rileva che l’assistenza alle regioni meno provviste di clero viene portata avanti dallo stesso episcopato mediante organizzazioni di base associativa o per accordi diretti tra i vescovi. A questi si potrebbe aggiungere, tuttavia, una ragione ancora più a monte: l’inadeguatezza dei modelli organizzativi propri delle comunità gerarchiche (cioè, gruppi di battezzati gerarchicamente strutturati attorno a propri pastori) per strutturare soltanto l’ordo clericale. Vedi, di recente, J. García Martín, La encíclica “Fidei donum” de Pío XII y la dimensión universal del presbítero secular, in “Commentarium pro Religiosis” 79, 1998, pp. 35-71.
69 Cfr. cost. ap. Pastor Bonus, art. 150 §§ 1-2, del 28 giugno 1988, AAS 80 (1988) 899.
70 Cfr. cost. ap. Pastor Bonus, art. 80, cit., AAS 80 (1988) 880, anche se la competenza di questo dicastero viene a meno trattandosi di prelature personali la cui attività riguardi esclusivamente territori di missione (cost. ap. Pastor Bonus, art. 89) o territori in cui “da antica data sono prevalenti i riti orientali” (cost. ap. Pastor Bonus, art. 60).
71 Cfr. cost. ap. Pastor Bonus, art. 89, cit., AAS 80 (1988) 882.
72 Cfr. cost. ap. Pastor Bonus, art. 60, cit., AAS 80 (1988) 875.