La Pastorale dei Migranti e le sue strutture secondo i documenti della Chiesa*
Rev. P. Velasio De PAOLIS, C.S.
Decano della Facoltà di Diritto Canonico
Indice
- Alcune precisazioni circa il titolo
- La pastorale per i migranti
- Strutture della pastorale per i migranti
- La cura pastorale nella parrocchia e nelle comunità ad essa equiparate
- Osservazioni alla organizzazione della pastorale dei migranti
I. Alcune precisazioni circa il titolo
1. Il mio discorso sulla pastorale dei migranti è basato sui documenti della Chiesa. Va precisato che i documenti ai quali facciamo riferimento sono nati particolarmente in riferimento alla Chiesa cattolica di rito latino. Di fatto non pochi sono i documenti emanati anche per le chiese di rito orientale[1]. I principali sono i seguenti. Alla base abbiamo la costituzione apostolica Exsul Familia Nazarethana[2]. Il Concilio ha parlato dei migranti in molti documenti, ma il testo fondamentale dal punto di vista della pastorale è Christus Dominus, 18[3]. Ad attuazione del Concilio abbiamo nel 1969 il motu proprio di Paolo VI, Pastoralis Migratorum Cura[4], e l’istruzione De Pastorali Migratorum Cura[5] della Congregazione Concistoriale[6]. In seguito il ruolo della pastorale per i migranti viene riconosciuto anche formalmente con la creazione di un’apposita commissione per la pastorale dei migranti, con un particolare collegamento con la stessa Congregazione per i Vescovi, il cui prefetto ne è il Presidente[7]. In seguito, con la riforma della Curia Romana operata con la costituzione apostolica Pastor Bonus, la commissione assume un ruolo molto più rilevante, in quanto viene elevata al rango di Pontificio Consiglio per la Pastorale dei migranti e degli itineranti[8]. Questa pastorale è stata inserita, in occasione della promulgazione del codice del 1983, per la prima volta nell’ordinamento canonico della Chiesa[9]. Non esiste propriamente una parte specifica dedicata alla cura pastorale dei migranti; ma rileggendo il codice, tenendo presente i documenti accennati, non è difficile ricostruirla. Anzi proprio l’inserimento di tale legislazione nella pastorale ordinaria dell’ordinamento canonico conferisce ad essa maggiore peso. Vanno ricordati anche i numerosi discorsi dell’attuale Sommo Pontefice specialmente all’inizio del suo pontificato, in particolare l’annuale messaggio ai migranti in occasione della giornata del migrante.
2. Parliamo della “pastorale”. Questo è un concetto che corre il rischio di diventare equivoco in quanto viene usato con tanti significati, al punto che si corre il rischio di svuotarlo di significato. Si può dire semplicemente che la pastorale è l’arte con la quale la Chiesa si edifica nel mondo in vista della realizzazione del Regno di Dio, secondo la sua natura e la sua missione e le finalità specifiche, e con i mezzi che le sono propri. Ora la natura della Chiesa è quella di essere sacramento di salvezza, corpo mistico di Cristo, popolo di Dio, mistero di salvezza.
La sua missione è quella eminentemente soprannaturale, la salvezza delle anime ossia la salvezza eterna degli uomini. I mezzi che sono propri della Chiesa sono quelli della parola, dei sacramenti e del sacerdozio: sono i tre beni essenziali consegnati da Cristo alla Chiesa perché essa possa raggiungere le sue finalità e che costituiscono l’appartenenza stessa alla Chiesa, nel senso che solo coloro che appartengono alla Chiesa cattolica ne possono disporre in pienezza. Sono i tre beni che costituiscono la pienezza della comunione con la Chiesa. In senso stretto e proprio pertanto si può chiamare “pastorale” ciò che dice riferimento all’attività e ai mezzi specifici della Chiesa e che in sé sono edificativi della stessa Chiesa. Questi mezzi sono affidati a coloro che nella Chiesa sono i pastori, che hanno ricevuto il compito dal Signore di pascere i fedeli.
La pastorale pertanto propriamente è un’attività tipica dei pastori, ossia della gerarchia. Principalmente pertanto da parte dei Vescovi in comunione con il Papa. Ma secondariamente ai sacerdoti in quanto cooperatori dei vescovi, e quindi ai diaconi in quanto ministri dei sacerdoti. L’attività pastorale in senso proprio si esplica pertanto attraverso il servizio ministeriale della predicazione, della santificazione e della guida di governo. Queste realtà vengono strutturate, ossia organizzate in modo stabile. Tuttavia non si può dimenticare che tutto il popolo di Dio è chiamato a partecipare alla pastorale della Chiesa, ciascuno secondo la propria vocazione. In questa prospettiva non si può dimenticare la componente propria dei religiosi/e e dei laici.
3. I migranti in senso stretto esprimono una realtà piuttosto sociologica; essi sono oggetto di studio secondo le diverse scienze che vi si avvicinano. Alla Chiesa il migrante direttamente interessa in quanto sono fedeli che la Chiesa ha il compito e il dovere di pascere e di guidare alla salvezza come tutti i fedeli. La loro particolare situazione tuttavia richiede dalla Chiesa una speciale attenzione, perché i mezzi ordinari di salvezza e le strutture pastorali ordinarie risultano insufficienti. Pertanto è necessaria una pastorale specifica: la pastorale dei migranti[10].
Parlare di pastorale dei migranti evidenzia subito la dimensione comunitaria. La pastorale riguarda una comunità di fedeli all’interno di determinate strutture che fanno capo al ministero ordinato sacerdotale. Le strutture ordinarie attraverso le quali la Chiesa si edifica sono la diocesi e la parrocchia e istituzioni ad essa affini o di supporto o ausiliarie o equiparate. La pastorale ha nella diocesi e nella parrocchia il suo fulcro. Tuttavia queste strutture hanno esigenze che talvolta superano l’ambito puramente parrocchiale o quello puramente diocesano o addirittura di conferenze episcopali. Si pone quindi anche il discorso di strutture ultra parrocchiali e ultra diocesane o ultra nazionali, e soprattutto di governo universale. La collaborazione ha una particolare rilevanza nel rapporto tra strutture territoriali ordinarie e strutture personali per i migranti o fedeli di rito diverso.[top]
II. La pastorale per i migranti
Sulla scorta dei documenti della Chiesa si possono individuare alcune linee di una pastorale specifica per i migranti, di azione cioè mediante la quale la Chiesa si costruisce nell’ambito delle migrazioni[11].[top]
1. Il concetto pastorale di “migrante”
Per la nozione di migrante rinviamo a quanto detto fin dall’inizio. Il fenomeno della mobilità umana è molto variegato e può avere cause e scopi molto diversificati. Da un punto di vista pastorale è possibile una certa unificazione. Così i documenti della Chiesa dividono il fenomeno della mobilità umana in emigranti, marittimi, aeronaviganti, nomadi, turisti (DSS, 2371-2375), anche se la classificazione non è esauriente. Per ciascun gruppo la Chiesa ha emanato delle direttive. Ma il campo per il quale ha accentuato la necessità di una pastorale specifica è quello dei migranti; in tale campo non raramente vengono fatti rientrare gli esuli, i profughi, i marittimi, gli aeronaviganti, i nomadi. Ma è indubbio che la categoria fondamentale per la quale la Chiesa ha elaborato la sua pastorale specifica sono principalmente i migranti. Per questi in modo particolare ha elaborato la nozione pastorale. Il n.15 dell’Istruzione De Pastorali Migratorum Cura, dopo aver rilevato che i fenomeni migratori si compongono di diversi elementi, prosegue osservando che i migranti “pur costituendo categorie umane non poco diverse tra loro, hanno in comune condizioni di vita del tutto particolari, che differiscono molto da quelle a cui erano assuefatti in patria, al punto da non poter far capo, per aiuto spirituale, ai parroci del luogo. Per questo la Chiesa si preoccupa con materna sollecitudine di prestare ad essi un’opportuna assistenza pastorale”. Ne deriva la seguente nozione pastorale del migrante: “perciò, da un punto di vista pastorale si devono considerare migranti tutti coloro che per qualsiasi motivo si trovano a vivere fuori della propria patria o della propria comunità etnica e hanno bisogno, per vere necessità, di una cura particolare specifica” (DSS, 2004, 2377).[top]
2. Necessità di una cura pastorale
Quando parliamo di pastorale presupponiamo l’esistenza di gruppi o di comunità di persone accomunate dalle stesse esigenze. Il migrante per la sua situazione di persona che vive fuori della propria patria o della comunità etnica, generalmente non può usufruire della pastorale ordinaria che la Chiesa offre ai fedeli mediante il ministero del parroco, che presiede una comunità su base territoriale (cann. 515 e 518). La Chiesa non può abbandonare a se stessi i fedeli che essa non può raggiungere con i metodi ordinari. Il decreto Christus Dominus, n. 18 ha raccomandato: “Si abbia una particolare sollecitudine per i fedeli che, per la loro condizione di vita non possono avvalersi sufficientemente della comune pastorale ordinaria dei parroci o ne mancano del tutto, come sono moltissimi migranti, esuli e profughi, marittimi e aeronaviganti, nomadi e altre categorie simili” (DSS, 1606). Il Codice, raccogliendo tali istanze, raccomanda al Vescovo (can. 383, § 1; DSS, 2811) di avere una particolare attenzione per coloro che “non sono in grado di avvalersi di una cura pastorale ordinaria” e al parroco (can 529, § 1; DSS, 2919) di avere una particolare diligenza per gli esuli dalla patria. Impone, poi che si costituiscano, in quanto è possibile, dei cappellani “per coloro che, per la loro condizione di vita non possono usufruire della cura ordinaria dei parroci” (can 568; DSS, 2821). Ai pastori, in particolare viene raccomandato che venga annunciata la parola di Dio a quei fedeli “che per la loro condizione di vita non sono in grado di avvalersi sufficientemente della comune e ordinaria azione pastorale o ne sono privi del tutto” (can. 771, § 1). La pastorale di cui hanno bisogno i migranti sarà dunque straordinaria (in opposizione a ordinaria) e speciale o specifica (in opposizione a comune).[top]
3. La specificità della pastorale per i migranti
Il principio generale che guida la pastorale specifica per i migranti è quello che troviamo più compiutamente espresso nella Exsul Familia: “Agli emigrati va assicurata un’assistenza spirituale non diversa né minore di quella di cui godono gli altri fedeli nelle diocesi” (DSS, 1132). La pastorale ordinaria con cui la Chiesa provvede ai suoi fedeli è quella della comunità parrocchiale attraverso il parroco. Dove perciò tale pastorale è insufficiente o manca del tutto, si dovrà provvedere, nei modi adeguati, con una pastorale specifica e straordinaria. Trattandosi di una pastorale, essa dice chiaro e necessario riferimento ad un sacerdote, che sia in grado di venire incontro alle esigenze dei migranti (DSS, 324). Deve essere un sacerdote della stessa lingua dei migranti (DSS, 1042-1044). Trattandosi di una lingua che comunichi con il destinatario del messaggio cristiano, la Chiesa raccomanda che, per quanto possibile, il sacerdote sia dello stesso gruppo etnico del migrante (DSS, 1999). La soluzione mediante un sacerdote che conosce la lingua solo per averla imparata è un ripiego, in mancanza di altri sacerdoti (DSS, 2059). Ma il sacerdote incaricato della pastorale per i migranti deve essere anche nella condizione di poter assolvere efficacemente il suo ministero ed edificare la comunità cristiana, la chiesa, tra i migranti. Le strutture pastorali potranno variare secondo le diverse situazioni, ma bisogna scegliere quelle adatte per raggiungere il fine (DSS, 2070-2072): dare ai migranti una cura pastorale adeguata, non minore di quella offerta agli altri fedeli. Va tenuto presente che tale pastorale si attua all’interno della stessa Chiesa, in comunione e in obbedienza al Vescovo, che ha la responsabilità della pastorale diocesana, come pure in comunione con tutto il popolo di Dio (DSS, 2075-2097).
La pastorale per i migranti è per la sua stessa natura straordinaria e provvisoria, appunto perché specifica e dovuta al fatto che quella ordinaria è insufficiente o manca del tutto. Essa non è alternativa o autonoma o contrapposta a quella ordinaria, svolta dal parroco nella comunità parrocchiale. Il parroco rimane il responsabile della comunità dei suoi fedeli, di tutti quelli che vivono nel territorio della sua parrocchia (DSS, 2058), solo che nei confronti della porzione dei migranti egli non è in grado di svolgere un adeguato ministero pastorale. Tale ministero viene svolto, finché è necessario, da un altro sacerdote della stessa lingua e possibilmente anche dello stesso gruppo etnico dei migranti, con potestà personale e cumulativa con quella del parroco (DSS, 2082-2089). La situazione di una comunità o gruppo di fedeli, affidato contemporaneamente alla cura pastorale di un parroco territoriale e ad un altro sacerdote della stessa lingua e gruppo etnico, è piuttosto anomala. Ma si tratta di un’anomalia imposta dalla realtà oggettiva e richiesta dal bene delle anime, regola suprema di ogni pastorale. La duplice appartenenza alla comunità etnica ed a quella territoriale, che la Chiesa prevede per i migranti significa, da parte di quest’ultima, la necessità di piegare le strutture al servizio delle anime, in particolare significa rispetto per il migrante e per il suo patrimonio spirituale come pure per l’unità della sua famiglia e, nello stesso tempo, un invito a iniziare un cammino di inserimento, sia pure graduale, nella comunità parrocchiale territoriale; significa garantire il migrante nella sua libertà di appartenere alla sua comunità etnica ed insieme di inserirsi in quella territoriale.[top]
4. Giustificazione della pastorale specifica
a) Punto di partenza della pastorale specifica
La persona che si trova fuori dalla propria patria e della propria comunità etnica è come disorientata. Le ripercussioni si fanno sentire anche a livello di fede e di pratica religiosa (DSS, 1984ss.). Il migrante non ha, in genere, conoscenza della lingua del paese che lo ospita, o se ne ha, non la padroneggia a sufficienza. In ogni caso è fuori dal contesto culturale del nuovo popolo in mezzo al quale viene a trovarsi. Il rapporto con il parroco del luogo e, attraverso di lui, con la comunità cristiana, in cui è venuto ad abitare, è difficile o addirittura impossibile. Se si tratta di una comunità numerosa, essa non è in grado di avvalersi del ministero del parroco per vivere la propria fede, specialmente se, come spesso avviene, è minacciata anche dall’esterno. A tale comunità bisogna approntare una pastorale specifica, con mezzi straordinari, comunque adeguati alla situazione. Pio XII diceva ai missionari per i migranti: “Fate comprendere agli immigrati italiani che la vostra è un’assistenza spirituale straordinaria, la quale deve offrire loro, tra l’altro, l’opportunità di confessarsi nella lingua materna, quando ciò non è possibile presso i sacerdoti indigeni, ma che frattanto essi debbono studiarsi nei giorni festivi di frequentare gli uffici divini insieme con i fedeli del Paese. Incoraggiateli ad accostumarsi alla vita religiosa del luogo, e soprattutto a prendere contatto con le organizzazioni cattoliche, specialmente dei lavoratori e della gioventù” (DSS, 1963).
È questa prevalentemente la prospettiva in cui si dirigono in genere gli interventi della Chiesa prima del Concilio, e chi si trovano particolarmente nella Costituzione Exsul Familia. La mancanza dei ministri sacri è causa di gravi danni per la fede, mentre la loro presenza la alimenta e la irrobustisce (DSS, 1033-1034-1034). In tale linea si colloca in particolare la prescrizione del Concilio lateranense IV del 1215 che imponeva ai Vescovi di mettere a disposizione “persone idonee per i fedeli di diversa lingua e rito, i quali celebrassero i divini offici secondo la diversità delle lingue e dei riti, amministrassero i sacramenti, e li istruissero sia con la parola che con l’esempio” (DSS,1047). L’assistenza con cura pastorale specifica è considerata però come qualche cosa di straordinario che deve cessare quanto prima. Così oggetto della cura pastorale specifica per la Costituzione Exsul Familia sono soltanto i migranti della prima e seconda generazione (DSS, 122-1224).
b) Valorizzazione del patrimonio culturale
La riflessione sulla cura pastorale dei migranti doveva portare ad una sua più solida fondazione. Anche se consapevoli che in anime particolarmente sensibili ed avvedute, tale riflessione era già cominciata da lungo tempo, non si può negare che essa ha visto il suo meriggio particolarmente con il Concilio ecumenico Vaticano II, con le sue indicazioni sull’attività missionaria nel decreto Ad Gentes, con le sue meditazioni ecclesiologiche nella Costituzione Lumen Gentium, e con l’approfondimento tra fede e cultura, nella Costituzione pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes. Arriviamo così alla formulazione che troviamo in particolare nella Istruzione De Pastorali Migratorum Cura, n. 11 a proposito del patrimonio culturale dei migranti. I migranti portano così il proprio modo di pensare, la propria lingua, la propria cultura, la propria religione: tutto questo costituisce un certo patrimonio spirituale di giudizio, di tradizioni e di cultura, il quale dovrà rimanere anche fuori della propria patria: deve essere perciò oggetto di grandissima stima ovunque.
In questo campo, la lingua materna rivendica per sé elementi di riflessione che non sono di poco conto. Con essa i migranti esprimono il loro abito mentale, le forme di pensiero e di cultura, come pure la loro vita spirituale.
Essendo tutto questo il mezzo naturale e la via per conoscere ed entrare nell’intimo dell’uomo, la cura dei migranti porta senza dubbio frutti più abbondanti, se viene offerta da coloro che conoscono bene tutto questo e che posseggono correttamente, in senso pieno, la lingua dei migranti: “risulta evidente pertanto e rimane confermata la prassi di esercitare la cura pastorale dei migranti attraverso sacerdoti della stessa lingua dei migranti, e per tutto il tempo che risulterà utile” (DSS, 1997-1999). Se infatti il patrimonio spirituale è un valore inalienabile della persona, la Chiesa non può chiedere la rinuncia di quel patrimonio come prezzo per l’espressione e la pratica della propria fede. In particolare un posto importante, anzi primario, ha la lingua, come espressione dello stesso patrimonio: non si tratta tanto e principalmente di conoscere la fonetica o la struttura grammaticale, quanto piuttosto di possederla come patrimonio spirituale e culturale: è la lingua patria o materna che, anche se non conosciuta nella perfezione sintattica, fa parte però della propria vita e del proprio essere: per suo tramite è nata, è cresciuta, ha preso forma anche la fede. Nel Motu Proprio Pastoralis Migratorum Cura, il Papa Paolo VI, dopo aver ricordato il Decreto Christus Dominus, 18, così prosegue: “Ora si comprende facilmente che non è possibile svolgere in maniera efficace questa cura pastorale, se non si tengono in debito conto il patrimonio spirituale e la cultura propria dei migranti. A tale riguardo ha grande importanza la lingua nazionale, con la quale essi esprimono i loro pensieri, la loro mentalità, la loro stessa vita religiosa” (DSS, 1975). In tale prospettiva si capisce perché a volte il tema del rispetto del patrimonio culturale del migrante viene ricollegato al grande tema della relazione tra cultura e fede da una parte e dall’altra dell’evangelizzazione che la Chiesa è chiamata ad attuare (DSS, 2390)[12].[top]
5. Il rispetto del patrimonio culturale e spirituale nel mistero della Chiesa
Una pastorale autentica e solidamente fondata non può non avere una base ecclesiologica sicura.
a) La Chiesa mistero di comunione che si edifica nell’Eucaristia
La Chiesa, pur sussistendo in questo mondo, organizzata in modo visibile, secondo le esigenze espresse dalla situazione storica, ha un fine che trascende la storia. La missione della Chiesa non è di “ordine politico, economico o sociale” (GS, 42). Essa non è legata a nessuna cultura, a nessun interesse particolare, a nessun popolo, ma, nata dallo Spirito nel giorno della Pentecoste, è “sacramento di Salvezza”, ossia “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG, 1).Èchiamata a realizzare sempre di più la sua cattolicità, la sua identità di popolo della nuova alleanza “che in tutte le lingue si esprime e tutte le lingue nell’amore intende e abbraccia, vincendo così la dispersione babelica” (AG, 4).Èla Chiesa della Trinità. Essa si “presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG, 4). “Tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo Popolo di Dio”, il quale “pur restando uno e unico si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli” (LG, 13). Esso “è radicato in tutte le nazioni della terra” (ib.) e tutti i fedeli “sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo” e così “chi sta in Roma, sa che gli Indi sono sue membra” (ib.). Siccome poi il Regno di Cristo non è di questo mondo “la Chiesa, cioè il Popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva…. Questo carattere di universalità che adorna e distingue il Popolo di Dio, è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo Capo, nell’unità dello Spirito di Lui. In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità” (LG, 13). Pienezza di unità che è garantita dalla presenza del Cristo morto e risorto, che è venuto a raccogliere, mediante il sacrificio redentore, in unità i figli di Dio dispersi (Gv 11, 51-52); unità che è continuamente costruita dall’Eucaristia e nell’Eucaristia, dove è “racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua, Lui il pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante dà la vita agli uomini, i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a Lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create. Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta la vita cristiana” e di ogni apostolato (PO, 5).
Sulla base della consapevolezza della innata universalità della sua natura e della sua funzione, la Chiesa sa bene che nel suo organismo “nessuno può essere considerato straniero o semplicemente ospite, né in qualche modo marginale” (DSS, 2452). “La chiesa cattolica, di cui l’Urbe è il centro, è soprannaturale per la sua stessa essenza” (DSS,946; cfr. anche DSS, 851). “A nessun membro del Corpo mistico di Cristo essa chiede quale sia il suo passaporto, prima di risolversi ad inserirlo nella vita della comunità e farlo partecipe dei propri beni spirituali e del proprio affetto”[13].
b) La Chiesa particolare nella quale si fa presente e opera la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica
Nelle Chiese particolari e dalle Chiese particolari sussiste l’unica Chiesa cattolica (Can. 368). Questa, ci ricorda Paolo VI nell’Esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”, n. 62, non va pensata come la somma o la federazione, più o meno eterogenea, di Chiese particolari, che differiscono tra di loro per la natura stessa delle cose. Per volontà divina, la Chiesa stessa, universale per vocazione e missione, assume in qualsiasi parte del mondo gli aspetti esterni e i lineamenti diversi, allorché mette radici nelle svariate condizioni rispetto all’ordine civile, sociale e umano. Qualsiasi Chiesa particolare che si separi deliberatamente dalla Chiesa universale, perde la relazione con il progetto divino e diventa più povera nella sua natura ecclesiale (DSS. 2266. 2273). Si comprende così come la diocesi venga definita dal Concilio, nel decreto “Christus Dominus”, n.11, come “porzione del popolo di Dio affidata alle cure pastorali del Vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore, e da questi radunata nello Spirito Santo per mezzo del Vangelo e dell’Eucaristia, costituisce una Chiesa particolare, nella quale è presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica” (DSS,1603). Tale definizione è ripresa letteralmente dal nuovo Codice e costituisce il can. 369. La Chiesa particolare diocesana è così la localizzazione e la concretizzazione semplicemente dell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa universale. Ancora Paolo VI nella stessa Esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi” commenta: “La Chiesa, diffusa in tutto il mondo, diventerebbe un’astrazione, se non prendesse corpo e vita precisamente attraverso le Chiese particolari” (DSS, 2267). Attraverso queste esiste, è presente e opera l’unica Chiesa di Cristo, santa, cattolica e apostolica. Propriamente dunque non esistono molte Chiese, ma una sola, l’unica Chiesa di Cristo, che si attualizza, si manifesta e si realizza attraverso le singole Chiese particolari. La particolarità pertanto di queste Chiese non sta nel fatto che una parte si contrappone al tutto o insieme con le altre parti costituisce il tutto, ma che il tutto, la Chiesa di Cristo, si realizza nella parte, porzione del Popolo di Dio quando questa porzione nella celebrazione dell’Eucaristia e nell’annunciazione della Parola, sotto la presidenza del Vescovo in comunione con il Papa, garanzia della successione apostolica, e con il suo presbiterio, per l’azione potente dello Spirito Santo, rende veramente presente il Cristo nella sua Chiesa. La caratteristica pertanto della universalità e della cattolicità fa parte essenziale di ogni Chiesa particolare, in comunione con la Chiesa diffusa in tutto il mondo. La Chiesa particolare pertanto dovrà essere aperta a tutti e rivivere in sé il mistero semplicemente della Chiesa e del suo Fondatore: “In tal modo essa rivive una volta di più il mistero del suo divino Fondatore, mistero di vita e di morte. Ieri, per raggiungere il mondo pagano, ha cercato di spogliarsi della fisionomia giudaica; per andare incontro ai barbari, ha abbandonato l’impronta attinta della mentalità romana; per essere disponibile all’intera umanità, si è sforzata di aprirsi a tutte le culture” (Chiesa e mobilità umana, 8; DSS, 2395).[top]
6. La pastorale dei migranti missione della Chiesa
a) La responsabilità di tutto il popolo di Dio
La Lettera “Chiesa e mobilità umana”, n. 29, partendo dalla comune dignità basilare, la varietà dei ministeri, delle funzioni, delle responsabilità (DSS, 2451), trae determinazioni di rilevanza fondamentale per la Pastorale della mobilità (DSS, 243). In particolare:
- anzitutto la necessità di una sensibilità dell’intero Popolo di Dio a questi fenomeni ed alle loro implicazioni religiose, pastorali, apostoliche, missionarie e sociali, ecc.
- la mobilità come si svolge nell’ora presente, crea spesso nella società zone di discriminazione, di emarginazione umana… Dove la mobilità è particolarmente pronunciata, avviene talvolta che frazioni della Chiesa non siano immuni da infiltrazioni di tipo nazionalistico (DSS, 2456).
I documenti della Chiesa sottolineano l’importanza del ruolo del Popolo di Dio. È in forza del battesimo che ogni battezzato è chiamato a portare avanti la missione della Chiesa: ce lo ha ricordato il Concilio (Lumen Gentium, 31). Il tema viene ripreso dal Codice di diritto canonico (can. 204, par. 1; can. 208). Per quanto riguarda il settore della mobilità umana, la Lettera “Chiesa e mobilità umana”, n. 29, ci ricorda: “Non sarà mai sottolineato abbastanza che i moderni fenomeni del movimento presentano occasioni di esercitare in pienezza, prima ancora dei doveri, i privilegi connessi con la vocazione cristiana. Sono, in altre parole, un impulso alla generosità, all’altruismo, alla creatività, di cui sarebbe arduo racchiudere in una formula tutte le possibilità di espansione” (DSS, 2454)[14].
b) I sacerdoti
Il cardine della pastorale specifica per i migranti è senza dubbio il sacerdote, come del resto di ogni pastorale.Èattraverso il ministero sacerdotale che Cristo continua a fare dono agli uomini della sua Redenzione, mediante la sua Parola e i Sacramenti. La pastorale per i migranti, anche se deve raggiungere tutto l’uomo, ha il suo senso pieno in relazione alla sua santificazione: l’Eucaristia è il culmine e fonte di tutta la vita del cristiano e di ogni apostolato. Il sacerdote che svolge il ministero tra i migranti deve conoscere la lingua del migrante. Meglio ancora se è dello stesso gruppo etnico del migrante: ne conosce così la lingua in senso pieno.
Il modo più facile per trovare tali sacerdoti è quello di farli venire dalla stessa Chiesa di origine: dal paese di provenienza dei migranti. Specialmente all’inizio del fenomeno migratorio, non sarebbe facile trovare un’altra soluzione. La Chiesa raccomanda così alle Chiese da cui provengono i migranti, di mettere a disposizione dei sacerdoti della stessa lingua dei migranti, perché siano vicini a questi, particolarmente nel momento più difficile del primo impatto con la nuova cultura e la nuova società (DSS, 2053).
La storia della pastorale dei migranti non sarà mai sufficientemente grata a tali sacerdoti: i migranti hanno conservato la fede e hanno dato origine a fiorenti comunità cattoliche grazie alla loro opera, anche se non sono mancate difficoltà ed abusi, ai quali l’autorità ecclesiastica ha cercato di porre riparo con norme speciali sui viaggi dei missionari all’estero (DSS, 332. 339. 680-682).
L’esigenza di tali missionari rimane tuttora ed è insostituibile. Essa dovrebbe anche trovare più facile attuazione nella nuova legislazione canonica. Il Concilio ci ha detto che i sacerdoti piuttosto che cooperatori del Vescovo, lo sono dell’ordine episcopale e quindi al servizio di tutta la Chiesa (PO, 7), anche se ordinati per il servizio della diocesi alla quale sono incardinati. Il nuovo Codice, pur conservando l’istituto della incardinazione, lo ha regolato in base alla nuova prospettiva conciliare. Perciò, per giusta causa può essere concessa la scardinazione (can. 270) con l’incardinazione in un’altra Chiesa particolare; anzi, il can. 271, par.1 raccomanda al Vescovo di non negare, se non per grave necessità ai suoi sacerdoti che lo chiedono, il permesso di andare a prestare il loro servizio ministeriale in un’altra diocesi, secondo speciali convenzioni.
Ci pare tuttavia che i sacerdoti diocesani siano le persone più adatte per una pastorale specifica soprattutto all’inizio, cioè per i migranti di prima generazione, che sono ancora quasi del tutto chiusi al mondo nuovo e incapaci di entrarvi. Il sacerdote diocesano del paese di origine è colui che in questo momento li può assistere con lo stesso loro linguaggio. Una tale pastorale specifica per i migranti esige una continuità, e nello stesso tempo un’apertura sempre più grande al mondo nuovo e uno sforzo di inserimento in esso, fino alla partecipazione piena dei migranti alla vita diocesana. Il missionario per i migranti in questo cammino deve essere l’uomo ponte, che mette in comunicazione la comunità dei migranti con quella di accoglienza. Ma a questo compito non sempre è in grado di dare una risposta adeguata il missionario diocesano: egli infatti dispone in genere solo di se stesso, della sua buona volontà e delle sue qualità, e per di più è legato ad una diocesi, alla quale intende prima o dopo ritornare, e che non gli può garantire in genere la continuità con nuove forze e energie[15].[top]
III. Strutture della pastorale per i migranti
La pastorale per i migranti, non diversamente dalla pastorale ordinaria, ha le proprie istituzioni e le proprie strutture, in base al principio enunciato nell’Exsul Familia: i migranti devono avere una cura pastorale sufficiente e comunque non minore di quella di cui godono gli altri fedeli nella vita della Chiesa (DSS, 2435-2436)[16].
Possiamo distinguere due tipi di strutture nella pastorale per i migranti: strutture che sono in sé direttamente e per natura loro pastorali, in quanto si tratta di uffici che comportano la cura animarum e strutture che sono piuttosto di promozione, di sostegno, di incoraggiamento, di coordinamento, di vigilanza, di studio. Questo secondo tipo si realizza a livello diocesano e a livello ultra diocesano.[top]
1. Strutture a livello di chiesa particolare[17]
Nella pastorale dei migranti sono coinvolti gli ordinari della Chiesa di partenza e della Chiesa di arrivo, sia pure a titolo diverso. La Chiesa di partenza ha il compito di formare adeguatamente coloro che lasciano il loro paese, perché siano istruiti sulle difficoltà e siano preparati ad affrontarle, senza pericoli per la propria fede (DSS, 2052). Per di più gli ordinari della Chiesa di partenza sono impegnati a mettere a disposizione sacerdoti che accompagnino i migranti nei nuovi paesi, in modo che questi abbiano a disposizione sacerdoti della stessa lingua (DSS, 2053). Ma la responsabilità maggiore spetta alla Chiesa di arrivo, chiamata ad accogliere i migranti con l’ospitalità cristiana, a mostrare il volto materno della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, a fornire sacerdoti della stessa lingua dei migranti, facendoli venire dai loro paesi di origine o formando al compito i propri sacerdoti (DSS, 2059-2060), ed approntando le strutture adeguate per la pastorale dei migranti (DSS, 2064-2072). Sono i Vescovi i veri ed unici responsabili nella propria diocesi della pastorale dei migranti.
Allo scopo gli ordinari diocesani potranno costituire nella propria diocesi uffici diocesani per la pastorale dei migranti (DSS, 2051. 2055). A capo di tali uffici potrebbe essere preposto un vicario episcopale che, a nome e in comunione con il Vescovo, segue questo particolare settore della vita pastorale diocesana (cfr. can. 476).
Ma avendo necessariamente la pastorale della mobilità umana una dimensione ultra territoriale e collegata con altre diocesi, essa ha bisogno di un’organizzazione ad un livello ultra diocesano (DSS, 2426-2428). Si tratta di strumenti di studio, di concertazione e di consulta, al servizio dei singoli vescovi. In ogni nazione pertanto, sia di partenza che di arrivo, dove il movimento migratorio è notevole, va costituita, a livello di competenza episcopale, una speciale commissione che abbia come settore di interesse e di studio proprio la pastorale per i migranti a livello nazionale. Ufficio di tale commissione sarà quello di un direttore o di un segretario permanente con il compito di seguire il fenomeno e i problemi della mobilità a livello nazionale (DSS, 2031 ss).
Un problema di particolare gravità e importanza sarà quello dell’assistenza pastorale e spirituale degli stessi sacerdoti che seguono i migranti. La loro situazione è particolarmente delicata. La legislazione della Chiesa sottopone tali sacerdoti, che continuano a rimanere incardinati alla diocesi di origine, alla giurisdizione del Vescovo presso il quale svolgono il loro ministero pastorale, sia per l’esercizio pastorale che per la vita personale (DSS, 2075-2078). A venire incontro alle loro esigenze, la Costituzione Apostolica “Exsul Familia” prevedeva la nomina, fatta direttamente dalla Santa Sede, di un Direttore dei missionari dello stesso gruppo etnico; le competenze riguardavano invece la vita dei sacerdoti missionari (DSS, 1138 ss).
Tale figura è rimasta, sia pure sotto altro nome, nella Istruzione “De Pastorali Migratorum Cura”: si chiama Delegato per i Missionari incaricati della pastorale di un determinato gruppo etnico. Egli è delegato per i Missionari che svolge le sue funzioni di direzione verso i Missionari. “Il Delegato per i Missionari, in forza del suo incarico, non gode di nessuna potestà di giurisdizione né territoriale né personale” (DSS, 2100). Quello del Delegato è un compito di guida spirituale, di sostegno morale dei missionari, nonché di vigilanza sulla loro condotta e conformità alle regole disciplinari che li riguardano.[top]
2. A livello di Chiesa universale
La Costituzione apostolica “Exsul Familia”, ripercorrendo il cammino con cui la Chiesa ha accompagnato la pastorale per i migranti, fa cenno alle diverse istituzioni e strutture da essa inventate e create lungo il corso dei secoli. Una tappa decisiva è segnata dal Motu Proprio di Paolo VI “Apostolicae Caritatis”, 19 marzo 1970, con il quale viene costituita la Pontificia Commissione per la cura spirituale dei migranti e degli itineranti (DSS, 2137. 2148), alla quale vengono ricondotte tutte le attività della Chiesa circa la mobilità umana, che fino allora erano frazionate in diversi dicasteri della Curia Romana (DSS, 2143). La nuova Costituzione “Pastor Bonus” ha trasformato la Commissione in Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, le cui finalità e la cui struttura vengono descritte negli articoli 149-151.[top]
IV. La cura pastorale nella parrocchia e nelle comunità ad essa equiparate
Ma la pastorale si svolge nella parrocchia sotto la responsabilità del vescovo diocesano. Il luogo ideale della pastorale per i migranti non può non essere quello della comunità parrocchiale o comunque in strutture che più ad essa si avvicinano. In essa si attuano meglio i principi guida che sono alla base della pastorale per i migranti:
- dare ai migranti la stessa assistenza pastorale che hanno i fedeli del posto;
- dare loro un’assistenza con un sacerdote della stessa lingua;
- riconoscere il loro patrimonio spirituale, senza forzare l’integrazione nella società di ac- coglienza;
- l’assistenza pastorale specifica va mantenuta finché lo richieda una vera necessità[18].
Quanto alla preferenza da dare alla parrocchia o ad altre strutture come la cappellania si possono fare le seguenti osservazioni. La risposta ci sembra va cercata nella prassi della Chiesa e nelle direttive della Chiesa che sono fonti del Codice. Ma va subito detto che la risposta non può essere uguale per tutte le situazioni. Lo dice chiaramente l’Istruzione De Pastorali Migratorum Cura al n. 12, dove leggiamo: “Per quanto riguarda i modi, le forme giuridiche e la conveniente durata dell’assistenza religiosa dei migranti, esse devono essere accuratamente considerate in tutti e nei singoli casi, per essere così adattate alle varie circostanze” (DSS, 2000). Tra le circostanze concrete da valutare, l’Istruzione poi indica le seguenti: la durata delle migrazioni, il processo di inserimento (prima o successive generazioni), le differenze di cultura (di lingua o di rito), il modo stesso del fenomeno migratorio, se stabile o temporaneo, se di piccoli gruppi o di massa, se geograficamente concentrato o disperso (DSS, 2001). In tale situazione bisogna tenere bene in mente il criterio guida: trovare una forma che pur negli inevitabili adattamenti risulti costantemente rispondente alle effettive necessità dei migranti (DSS, 2001). Al n. 33, la stessa Istruzione ci dà criteri operativi più precisi: “Nella cura pastorale dei migranti, dice l’Istruzione, le strutture e le strade che l’esperienza e la prassi confermano in modo chiaro, anche se vanno accomodate alle situazioni e alle circostanze dei luoghi, come pure alle consuetudini e alle necessità dei fedeli, sono le seguenti” (DSS, 2064). E vengono indicate la parrocchia personale, la missione con cura di anime, sia autonoma che annessa, mediante un vicario cooperatore, ad una parrocchia. Per ciascuna struttura vengono indicati i criteri per una scelta oculata.[top]
1. La parrocchia territoriale e la parrocchia personale
a) La comunità parrocchiale
All’interno della diocesi, vengono costituite le parrocchie. La divisione in parrocchie è presentata come normale nella vita della Chiesa. Il can. 374, par. 1 afferma: “Ogni diocesi o altra Chiesa particolare sia divisa in parti distinte o parrocchie”. Il can. 515, § 1 definisce la parrocchia come segue: “La parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell’ambito di una chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata, sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore”. Va notato che la parrocchia ha il suo senso in riferimento alla Chiesa particolare e, quindi, attraverso questa, alla Chiesa universale. Essa anzi non è propriamente Chiesa in sé, distinta dalla Chiesa particolare, in quanto è una comunità costituita stabilmente nella Chiesa particolare. Inoltre non ha un proprio Vescovo, ma “un parroco quale suo proprio pastore”, che è però “sotto l’autorità del Vescovo diocesano”. Si tratta tuttavia di una comunità “stabilmente costituita”, che “gode di personalità giuridica per il diritto stesso” (can. 515, § 1). La particolarità di tale comunità sta nel fatto che in essa si attua “la cura pastorale”, cioè la cura animarum. Proprio per questo la parrocchia può essere affidata soltanto ad un sacerdote, come parroco (can. 521, § 1). Inoltre l’ufficio di parroco è uno di quelli che comprendono la “cura animarum plena” e che in forza del diritto stesso deve essere affidato ad un sacerdote (can. 150). La parrocchia rimane una struttura portante della cura pastorale. Dalla sua vitalità dipende la vitalità della comunità diocesana, e la salvezza delle anime che vi appartengono.
b) Il parroco, pastore di anime
Giacché la piena cura delle anime si trova nell’ufficio del parroco, il fedele trova nella parrocchia tutti i mezzi necessari per la sua salvezza eterna. Infatti in questa egli viene rigenerato mediante il battesimo, nella parrocchia riceve i Sacramenti della Cresima, della Eucaristia e della Penitenza, come pure della Unzione degli Infermi e celebra il matrimonio. Nella parrocchia il fedele riceve il nutrimento della Parola di Dio, attraverso la predicazione, l’omelia, la catechesi e l’istruzione e formazione cristiana. La parrocchia è veramente il luogo dell’esperienza e della vita di fede del cristiano. Il can. 530 elenca le funzioni affidate in modo speciale al parroco. I can. 528 e 529 descrivono diffusamente l’impegno del parroco.
Il can. 519 così descrive l’ufficio del parroco: “Il parroco è il pastore proprio della parrocchia affidatagli, esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l’autorità del Vescovo diocesano, con il quale è chiamato a partecipare al ministero di Cristo, per compiere al servizio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l’apporto dei fedeli laici, a norma del diritto”. Le funzioni del parroco, da un punto di vista sacramentale, sono descritti nel can. 530. Nei canoni 528 e 529 è sottolineato l’impegno del parroco derivante dal munus docendi: l’annuncio della parola di Dio, la predicazione, la catechesi, l’omelia, la formazione ed educazione cristiana. Al centro del munus sanctificandi del parroco il codice pone l’Eucaristia (can. 528, § 2).
c) Parrocchia territoriale e parrocchia personale
Nella costituzione delle parrocchie, il Codice precedente aveva come criterio esclusivamente quello territoriale[19]. In realtà tale prescrizione era stata superata dai fatti e da altri documenti della Chiesa, particolarmente dalla costituzione Apostolica Exsul Familia del 1952[20]. Il Concilio riflettendo sulla situazione dei fedeli, rimedita anche la struttura diocesana e quella parrocchiale, come abbiamo avuto modo di accennare. In obbedienza ai dettati conciliari, il Sinodo dei Vescovi del 1967 approvò, tra i principi direttivi per la revisione del Codice, il principio ottavo[21] che ridimensiona il principio della territorialità e apre a quello della personalità delle leggi e dell’organizzazione della Chiesa.
Sulla base della dottrina conciliare e dei principi direttivi per la revisione del nuovo Codice, il can. 518 se da una parte stabilisce che la parrocchia di regola deve essere territoriale (“paroecia regula generali sit territorialis”), dall’altra stabilisce la norma che impone le parrocchie personali là dove risulti utile (“ubi vero id expediat, constituantur paroeciae personales, ratione ritus, linguae, nationis christifidelium alicuius territorii atque alia etiam ratione determinatae”). A proposito di tale norma è opportuno annotare che se, da una parte, la parrocchia personale deve avere una particolare motivazione per essere costituita, dall’altra una volta che risulti vantaggiosa per la comunità, l’autorità competente ha il dovere di erigerla, perché questa, nelle scelte pastorali, non può avere altro criterio che il bene delle anime, da valutare secondo le direttive generali che presiedono l’azione pastorale.
In considerazione della natura composita del fenomeno della mobilità umana, il n. 12 della Istruzione offre degli orientamenti generali, che diventano criteri più precisi nel n. 33.
Il n. 12 così si esprime: “Per quanto riguarda i modi, le forme giuridiche e la conveniente durata dell’assistenza religiosa dei migranti, esse devono essere accuratamente considerate in tutti e nei singoli casi, per essere così adattate alle varie circostanze”. Enumera poi le circostanze che vanno tenute presenti: “Tra queste circostanze è opportuno richiamare le seguenti: la durata della migrazione, il processo di integrazione (della prima o delle successive generazioni), le differenze culturali (di linguaggio e di rito), la forma del movimento migratorio, a seconda che si tratti di migrazione periodica, stabile o temporanea, di migrazione a piccoli gruppi o in massa, di insediamenti geograficamente concentrati o sparsi”. Conclude poi con un criterio generale, ispiratore, di massima importanza: “Stante tale diversità di situazioni, non può sfuggire ad alcuno quale sia l’aspetto principale del servizio che la Chiesa deve offrire alle anime: quello di renderlo e mantenerlo continuamente adeguato alle vere necessità dei migranti”.
Venendo a precisare le strutture adeguate e rispondenti ai diversi bisogni, il n. 33 premette anzitutto un’affermazione di ordine generale: “Nel prestare l’assistenza pastorale ai migranti, sono questi i principali modi e forme da adattare s’intende alle varie circostanze ed usi locali, oltreché alle consuetudini ed alle necessità di tali fedeli, che si raccomandano perché collaudati da lunga esperienza”. Quindi lo stesso n. 33 offre cinque paradigmi strutturali per venire incontro ai migranti. Per il momento limitiamoci a trascrivere i primi tre. Per la parrocchia personale viene offerto il seguente criterio: “dove sono numerosi i migranti della stessa lingua, che o si sono stabiliti nella zona o vi si avvicendano continuamente, può essere opportuna l’erezione di una parrocchia personale che dovrà essere convenientemente definita dall’Ordinario del luogo”.
L’appartenenza alla parrocchia personale è in base non al criterio territoriale, ma ad un criterio inerente alla persona, quale la nazione, la lingua, il rito, ecc. Spesso tuttavia il criterio personale si unisce a quello territoriale, in quanto solo le persone entro un determinato territorio possono far parte della parrocchia personale. Si aggiunga inoltre che spesso la il fedele che appartiene ad una parrocchia personale non cessa di appartenere anche ad una parrocchia territoriale, in forza del domicilio o quasi domicilio. Il criterio di appartenenza determina il pastore proprio: questi a sua volta non può esercitare i suoi poteri e le sue facoltà se non sui propri sudditi, che vengono determinati o dal criterio personale o territoriale di appartenenza o da tutti e due. Il can. 1110 attira l’attenzione particolarmente per la facoltà di assistere al matrimonio.
A conclusione va detto che la legislazione sulla parrocchia territoriale vale anche per la parrocchia personale, a meno che in qualche punto particolare non sia detto diversamente[22]. [top]
2. Parrocchia in solidum
Una novità del codice del 1983 è la previsione di una parrocchia affidata in solidum a più sacerdoti. Ne tratta il c. 517. La possibilità è presentata come qualche cosa di eccezionale e di straordinario: si può attuare infatti là dove ciò sia richiesto dalle circostanze. L’ipotesi infatti in linea generale contrasta con la tradizione della legislazione e la prassi della cura pastorale della Chiesa. Il principio generale infatti è che il parroco debba avere in cura una sola parrocchia e una parrocchia debba avere un solo parroco, come stabilisce il c. 526. Lo stesso canone tuttavia ammette la possibilità di eccezioni.
L’ipotesi della parrocchia in solidum è duplice: singole parrocchie possono essere affidate in solidum a più sacerdoti; oppure più parrocchie insieme possono essere affidate in solidum a più sacerdoti. L’affidamento in solidum di una parrocchia o di più parrocchie fa sì che tutti i sacerdoti che si vedono affidata in tal modo la parrocchia abbiano tutti i poteri parrocchiali, e in un certo senso siano effettivamente tutti parroci, in quanto i diritti e doveri del parroco sono da essi posseduti in pienezza; e in forza dell’ufficio. Si tratta pertanto di una potestà ordinaria propria.
Esigenze pratiche tuttavia richiedono un coordinamento dei poteri dei diversi parroci, che esercitano in solidum la cura pastorale. Il canone pertanto richiede che vi sia un moderatore nell’esercizio della stessa cura pastorale dei diversi sacerdoti che lavorano in solidum. Suo compito è dirigere l’azione dei singoli in modo che essa risulti unitaria. In particolare il moderatore è chiamato a rispondere di tale cura pastorale davanti al Vescovo. Quest’ultima funzione fa sì che ci si può domandare legittimamente se i sacerdoti che lavorano in solidum in una parrocchia vengano effettivamente sotto il nome di “parroco” nel codice. Il can. 526 § 2 può invece lasciare aperto qualche dubbio. L’affermazione infatti secondo cui nella parrocchia deve esservi un solo parroco o un solo moderatore, può essere intesa sia nel senso che il moderatore è appunto nel caso in cui nella parrocchia abbiamo più parroci, oppure nel senso in cui il solo parroco in questo caso è il moderatore.
Tale struttura parrocchiale, nuova nel codice, può risultare anche quanto mai utile anche per la cura pastorale dei migranti. Uno dei parroci infatti costituiti in solidum nella parrocchia potrebbe essere della stessa lingua di un determinato gruppo etnico parrocchiale e essere nella pratica, attraverso un opportuno coordinamento, incaricato di un determinato gruppo etnico. Egli in tal caso eserciterebbe nei loro confronti tutti i diritti e doveri dei parroci, disporre nello stesso tempo delle strutture parrocchiali, sarebbe sullo stesso piano degli altri sacerdoti. Tale struttura parrocchiale potrebbe avere e anche superare gli inconvenienti che talvolta sono connessi con la cura pastorale di gruppi etnici, quali l’isolamento, l’emarginazione, o la contrapposizione etnica o nazionalista nei confronti di altri gruppi, il ritardo nell’inserimento, ecc. Tuttavia tale forma sembra di difficile attuazione almeno all’inizio, quando la comunità dei migranti ha bisogno ancora di una propria identificazione, con un sacerdote della propria lingua o nazione.[top]
3. Missione con cura di anime
La Missione con cura di anime[23] è forse, accanto alla parrocchia personale, la più diffusa nella cura pastorale per i migranti. Di essa tuttavia non vi è traccia esplicita nel Codice. Con un po’ di buona volontà potrebbe rientrare nell’ipotesi ultima del c. 516 § 2, che prescrive che dove il Vescovo diocesano non possa costituire determinate comunità di fedeli in parrocchia o quasi parrocchia può provvedere alla loro cura pastorale in altro modo. Questo altro modo non è evidentemente un modo qualsiasi, che non abbia nessuna relazione o affinità con la parrocchia. In realtà si tratta di comunità per le quali il mezzo ordinario dovrebbe essere la parrocchia o la quasi parrocchia. La soluzione pertanto dovrebbe avvicinarsi alle due forme espressamente indicate. Di fatto la Missione con cura di anime, come risulta da altri documenti, è molto vicina alla funzione della parrocchia, anche se non è evidentemente una parrocchia.
Dal nome Missione con cura di anime possiamo avere già una qualche indicazione: si tratta di una struttura che ha una cura piena delle anime, come la parrocchia.Èaffidata pertanto ad un sacerdote, che dovrà essere munito dei poteri e delle facoltà di un parroco. Non ha però tutta l’organizzazione e la struttura di una parrocchia: è una missione. L’accento è posto così quasi esclusivamente sulla funzione da svolgere e dalle persone coinvolte. Da ciò si deduce anche che si tratta di una situazione di transizione, provvisoria. Ma non si deve lasciarsi ingannare dalla parola “missione” per pensare che si tratti di una struttura tipica delle terre di missione e della evangelizzazione ad Gentes o di una quasi parrocchia.Èuna forma di cura pastorale che si esercita tranquillamente anche nei territori gerarchicamente organizzati. Si può anche aggiungere che tale forma è abbastanza diffusa nella prassi; di essa meno si parla nei documenti legislativi e nella dottrina degli autori.
Della Missione con cura di anime si parla in modo particolare nella Costituzione Exsul Familia, come di una forma di cura pastorale vigente in favore dei migranti. La costituzione infatti da una parte tratta in modo esplicito della erezione delle parrocchie personali, dall’altra più in generale della cura spirituale degli stranieri o immigrati, da affidare a sacerdoti della rispettiva lingua o nazionalità degli emigranti; esorta poi gli ordinari a “concedere ai missionari degli emigranti la potestà di esercitare la cura delle anime verso i fedeli residenti o di passaggio della stessa lingua o nazionalità”. E specifica che tale missionario “è equiparato al parroco” e deve avere anche i libri parrocchiali. Si tratta di una potestà parrocchiale, personale, cumulativa con la potestà del parroco del luogo (cf. seconda parte, cap. IV della costituzione). Tutto questo significa che accanto alla struttura della parrocchia personale esiste un’altra struttura di cura d’anime non parrocchiale, ma equiparata a questa. La costituzione non ha un nome per essa. Ma nella prassi si sa che è precisamente la missione con cura di anime.
L’Istruzione De Pastorali Migratorum Cura la chiama esplicitamente Missione con cura di anime. L’art. 33 § 2 stabilisce che tale forma di cura pastorale è prevista là dove esiste un gruppo particolare di fedeli bisognoso di cura pastorale specifica. Il testo latino usa la seguente espressione: “peculiares hominum coetus”. A ben riflettere si tratta più che di comunità di un “coetus” di un gruppo cioè che si costituisce per ragioni transitorie e quindi in senso rigoroso difficilmente costituisce una comunità. Di fatto la ragione della costituzione è dovuta a motivi “peculiari”, che possono essere anch’essi transitori. Tuttavia si tratta di gruppi omogenei, in quanto alla base hanno ragioni comuni, e per le stesse ragioni richiedono anche una particolare pastorale. La loro natura di “coetus” non permette la costituzione di una parrocchia personale, in quanto mancano le caratteristiche di una comunità stabile e duratura. Dall’altra le stesse caratteristiche esigono una pastorale, una cura di anime. Lo stesso art. 33 § 2 specifica infatti che si tratta di gruppi che hanno una certa durata nel tempo e che pertanto dimorano nello stesso luogo, anche se non si tratta sempre delle stesse persone: situazione dunque di un gruppo permanente, che esige una particolare cura, e nello stesso tempo di un gruppo vario, che continuamente cambia. Si tratta pertanto di un gruppo per il quale si provvede con una cura pastorale simile a quella parrocchiale, ma non parrocchiale.
Spetterà all’ordinario del luogo circoscrivere i confini del gruppo di fedeli, che viene affidato al sacerdote preferibilmente della stessa lingua, anche in relazione al territorio, oltre che ai connotati personali. L’Istruzione cita a sostegno della norma proposta una dichiarazione della Congregazione Concistoriale, che in data 21 nov. 1966 diceva che il Vescovo diocesano con la propria autorità può erigere nella sua diocesi non solo una parrocchia personale, ma anche una missione con cura di anime per i fedeli di lingua o nazione diverse, a condizione però che siano determinati in modo certo e idoneo i confini e la cura pastorale dei fedeli sia affidati ad un Missionario per i migranti della stessa lingua. I confini di una missione con cura di anime possono essere limitati all’interno dei confini di una parrocchia territoriale. Ma normalmente sono superati. Possono raggiungere gli stessi confini di una diocesi. Se la Missione con cura d’anime superasse però i limiti di una diocesi, sarebbero necessarie anche le facoltà del vescovo delle altre diocesi. Da un punto di vista giuridico si potrebbe dubitare che una missione con cura di anime possa superare i confini di una diocesi, rimanendo la stessa realtà giuridica unitaria.
L’art. 39 della stessa Istruzione precisa che il Missionario o cappellano al quale è affidata la missione con cura di anime ha un potere proprio ed è equiparato al parroco, anche se l’art. 39 § 4 presenta anche qualche aspetto in cui esiste una differenziazione rispetto al parroco. Tale potere è personale, ossia si esercita sulle persone dei migranti della stessa lingua, e deve essere esercitato entro i confini della stessa missione. Inoltre la sua potestà è cumulativa con quella del parroco territoriale. Conseguentemente ogni migrante è libero di riferirsi al parroco territoriale o al missionario o cappellano.
Il Missionario titolare di una missione con cura di anime può avere anche dei sacerdoti collaboratori: questi vengono equiparati al vicario cooperatore del parroco.
Non sono necessarie per la missione con cura di anime le strutture ordinarie di una parrocchia, come in modo particolare la Chiesa. Il sacerdote incaricato della missione potrà usufruire di chiese parrocchiali o altre chiese dove radunare la comunità dei credenti per la celebrazione del culto e dei sacramenti in genere; come pure potrà servirsi, d’accordo con gli ordinari e i parroci, di altri servizi e attrezzature parrocchiali.
La missione con cura di anime è pertanto una struttura agile, ma nello stesso tempo anche completa per la cura di anime che risponda alle esigenze di una comunità di fedeli analoga a quella parrocchiale. È quanto mai opportuna per una comunità di fedeli in transizione.
La missione con cura di anime è prevista sia come realtà autonoma, che come struttura collegata in modo particolare con una parrocchia, sia territoriale che personale. L’art. 33 § 3 dell’Istruzione De Pastorali Migratorum Cura prevede infatti che la missione con cura di anime possa essere annessa, entro i confini di una o più parrocchie, a una qualche parrocchia territoriale. L’ipotesi più frequente è quella di una parrocchia affidata ad una comunità religiosa, che ha come scopo proprio la cura pastorale per i migranti: in questo caso il missionario che ha la missione con cura di anime può avere un più sicuro punto di riferimento sia per sé che per la comunità pastoralmente curata. Ma da un punto di vista giuridico non esistono particolari problemi.
La configurazione della Missione con cura di anime risulta dai documenti abbastanza precisa. Non sempre però nella pratica sarà facile distinguere la missione con cura di anime da altre strutture come quella della cappellania, con ampli poteri. La caratteristica propria della missione con cura di anime è che essa, per natura sua, è equiparata alla parrocchia e il sacerdote che la regge ha tutti i poteri e le facoltà del parroco, in forza dello stesso diritto. Si tratta infatti di poteri ordinari, legati all’ufficio e pertanto indivisibili. Il cappellano invece può avere tutti i poteri di un parroco, ma non in forza del diritto. Se li ha si tratta di poteri delegati, e in ogni caso sempre revocabili e divisibili. [top]
4. Cappellania per i migranti
Tra le diverse forme di cura pastorale per i migranti, l’istruzione De Pastorali Migratorum Cura, art. 33 § 4 prevede anche quello della cappellania[24]. Viene considerata come la soluzione per i casi nei quali non appare opportuna né la parrocchia personale, né la missione con cura di anime, sia autonoma che annessa ad una parrocchia. La cappellania fa capo ad un sacerdote, detto cappellano o missionario, della stessa lingua dei migranti, al quale è affidato l’incarico della cura spirituale dei migranti nell’ambito di un territorio ben definito, sia nell’ambito di una parrocchia che di più parrocchie, fino all’ambito dell’intera diocesi, e, munito di opportune facoltà anche da parte dell’ordinario competente, oltre il territorio diocesano.
La figura della cappellania si distingue chiaramente da quella della parrocchia personale e della quasi parrocchia come pure della missione con cura di anime, per il fatto che la cappellania non è parrocchia e il cappellano esercita poteri delegati, sia a iure che ab homine. Pertanto la figura del cappellano è sempre nell’ambito di una parrocchia ed è subordinato al parroco. Il c. 571 ricorda che il cappellano deve tenere una debita unione con il parroco, nell’esercizio del suo ministero pastorale[25].
Di fatto nel Codice vigente troviamo un insieme di norme che regolano in modo preciso la figura della cappellania e del cappellano (cf. ccc. 564-572). All’interno di questa normativa va collocata anche la figura del cappellano per i migranti.
Dal c. 564 si deduce anzitutto che il cappellano è un sacerdote: tra le sue funzioni se ne prevedono alcune che richiedono necessariamente l’ordine sacerdotale (cf. cc. 150; 274). Si tratta di un ufficio con alcuni poteri e facoltà ordinari, sia in forza della legge universale che particolare, ed altri che possono essere delegati.Èun abuso pertanto parlare di una cappellania affidata a diaconi o addirittura a laici, anche se, analogamente a quanto stabilisce il c. 517 § 2, alcune funzioni della cappellania, possono essere esercitate anche da non sacerdoti, sotto la responsabilità dello stesso sacerdote.
Inoltre al cappellano viene affidata in modo stabile la cura pastorale di una comunità o di un peculiare gruppo di fedeli. Tale cura pastorale non è necessariamente piena, anzi normalmente non lo è, in quanto in genere tale gruppo di fedeli o tale comunità deve, per certi atti, fare riferimento alla parrocchia. Tuttavia è possibile anche una cura pastorale piena, nel senso che al cappellano possono essere conferiti poteri e facoltà senza limiti, fino a comprendere tutti quelli del parroco. Si capisce perché il testo afferma «almeno in parte». Per sapere quali siano i poteri e le facoltà di un cappellano si deve fare ricorso al diritto universale e a quello particolare.
Il c. 566 enuncia un principio di ordine generale molto significativo: il cappellano deve essere dotato di tutti i poteri e facoltà richiesti dalla sua funzione, cioè per una adeguata e conveniente cura pastorale della comunità. Siccome tali esigenze cambiano da situazione a situazione, si comprende come sia aperta la possibilità ad ampie deleghe o all’ampliamento delle stesse facoltà vi offici in base al diritto proprio. In forza dello stesso ufficio ha la facoltà ordinaria di ascoltare le confessioni delle persone affidate alla sua cura, di predicare la parola di Dio, di amministrare il Viatico, il sacramento degli infermi come pure quello della cresima a coloro che si trovano in pericolo di morte. Inoltre, oltre a quanto già gli concede il c. 976, negli ospedali o nelle carceri come pure nei viaggi marittimi, il cappellano ha la facoltà, di esercitare soltanto all’interno di quei luoghi, di assolvere dalla censure latae sententiae non riservate e non dichiarate.
La nomina del cappellano in linea generale è di libero conferimento e quindi di libera nomina da parte dell’ordinario del luogo (cf. c. 565); si deve però tenere presente quanto prescrive il codice per i religiosi (cf. c. 682). In ogni caso si deve rispettare un eventuale diritto di presentazione (cf. cc. 158-163).
La cappellania è una figura giuridica che può essere uno strumento di ministero pastorale per diverse esigenze, in favore di comunità o di determinati gruppi di fedeli. Essa si presta particolarmente per le case di istituti religiosi laicali (cf. c. 567); per gruppi di persone con particolari funzioni, come i cappellani dei militari, degli studenti, delle carceri, ecc.
Il c. 568 in modo particolare fa menzione del cappellano in relazione a quella categoria di fedeli che per le condizioni della loro vita non sono in grado di avvalersi della cura pastorale ordinaria dei parroci. Le persone che esemplificativamente vengono nominate sono i migranti, gli esuli, i profughi, i nomadi, i naviganti. Effettivamente per i sacerdoti che si dedicano alla cura pastorale di questa categoria di persona esiste un’ampia normativa della chiesa, come abbiamo già rilevato appena sopra. Effettivamente la figura della cappellania può rispondere bene alle esigenze della cura pastorale di tali persone[26]. [top]
5. Affidamento di alcune funzioni parrocchiali a norma del can. 517 § 2
Il c. 517 § 2 prevede una possibile struttura di cura pastorale che in casi speciali può essere affidata anche a persone non rivestite della dignità sacerdotale. L’ipotesi può avere una sua pratica utilità anche per la cura pastorale dei migranti.Èopportuno farne una breve presentazione.
Per la cura pastorale dei fedeli il Signore ha disposto nella sua chiesa il sacerdozio ministeriale, ossia di servizio al sacerdozio comune dei fedeli. Per la stessa disposizione divina, nella Chiesa tra i fedeli ne esistono alcuni che sono ministri sacri, che nel diritto sono chiamati chierici (cf. c. 207). Alla base vi è il sacramento dell’ordine, con il quale tali fedeli sono segnati in modo indelebile. Il c.1008 spiega che cosa significhi essere ministri sacri: essere consacrati ed essere deputati, secondo i diversi gradi dello stesso ordine sacro, a pascere il popolo di Dio, ossia ad esercitare la cura pastorale. Tale cura pastorale consiste in modo specifico nell’esercizio delle tre funzioni di Cristo: la funzione di insegnamento, di santificazione e di governo. In essi tale funzione è possibile perché il sacramento dell’ordine li ha configurati a Cristo Capo e ad agire in suo nome, in modo del tutto particolare, precisamente a nome di Cristo Capo della Chiesa, che continua a far fluire la sua vita nelle sue membra (cf. c. 1008). Perciò tale sacerdozio è ministeriale. Esso è indispensabile nella Chiesa proprio perché il popolo sacerdotale può vivere solo se viene continuamente alimentato della vita di Cristo, mediante i Sacramenti, la Parola e il suo Governo.
In questa prospettiva si comprende perché la cura pastorale nella Chiesa può essere affidata solo a chi ha l’ordine sacro (cf. c. 150; vedi anche c. 274). Di fatto l’ufficio parrocchiale può essere affidato solo ad un sacerdote (cf. cc. 515-516; 521 § 1).
In questa luce dobbiamo leggere la prescrizione del c. 517 § 2. Non si tratta di una eccezione ai principi generali enunciati. Di fatto l’ipotesi designata dal c. 517 § 2 è all’interno della norma generale: il Vescovo deve costituire un sacerdote, dotato dei poteri e delle facoltà di parroco, che regoli la cura pastorale. Si tratta certo di un «parroco» un po’ speciale, in quanto egli non risiede e non esercita abitualmente tutti i poteri del parroco in tale comunità. Perciò esplicitamente non è chiamato parroco, ma sacerdote dotato di poteri e facoltà di parroco. Ma non possiamo dimenticare che siamo di fronte ad un caso anomalo. Da un punto di vista strettamente giuridico possiamo così configurare la natura di tale sacerdote: egli non è propriamente parroco; la parrocchia proprio per la scarsità di sacerdoti rimane vacante, fino a che il Vescovo non trovi un sacerdote idoneo; il sacerdote incaricato nel frattempo ha tutti i poteri e le facoltà del parroco; alcune funzioni compatibili con la mancanza del sacerdozio nei soggetti possono essere esercitate da laici o da diaconi.
Il punto di partenza infatti è la scarsità dei sacerdoti ai quali il vescovo possa affidare la cura pastorale di una parrocchia, secondo le prescrizioni del codice. In tale situazione di emergenza, si profila una soluzione anomala, senza che per altro vengano intaccati i principi fondamentali dello stesso ordinamento canonico circa la cura pastorale. Viene pertanto garantito che i poteri e le facoltà di parroco possono essere concesse solo ad un sacerdote: è questo il punto essenziale. La comunità pertanto dovrà fare riferimento per la cura pastorale a tale sacerdote. Siccome però tale sacerdote non può assicurare la sua presenza nella comunità, proprio per la scarsità dei sacerdoti, alcuni funzioni del parroco (non i poteri e le facoltà del parroco, e tanto meno, l’ufficio di parroco) vengono affidate per il loro esercizio a una persona che non è rivestita del carattere sacerdotale; ma più in generale a qualsiasi persona sprovvista del carattere sacerdotale; anzi anche ad una comunità di persone.
Si tratta propriamente di una «partecipazione» nell’esercizio della cura pastorale: ciò significa che non si tratta di tutta la cura pastorale di una parrocchia; ma di una sua parte. Anzi «la partecipazione» presuppone che vi sia un titolare principale, che possiede tutti i poteri e facoltà per la cura pastorale, cioè il sacerdote. La partecipazione ha senso solo in relazione alla pienezza di cui il sacerdote è il titolare e subordinatamente a lui.
Quanto ampia sia la partecipazione viene determinata dallo stesso Vescovo diocesano e dipende anche dalle persone che ne vengono fatte partecipi. Molto dipenderà anche dalla preparazione della persona che ne viene investita.
Ciò precisato, c’è da dire che si tratta di una grande innovazione e di una grande possibilità. Essa è prevista per la scarsità del clero. Ma può essere anche l’occasione per la riscoperta dell’impegno del laicato nell’adempimento della missione della Chiesa, della quale ogni fedele, in forza del battesimo, è titolare. L’importante è che non si cada nella confusione degli stati di vita e delle vocazioni, soprattutto non finisca per oscurare o addirittura negare la struttura gerarchica della Chiesa e in particolare la funzione del sacerdozio ministeriale. Questo sacerdozio mette in chiara luce che il primato spetta a Cristo e alla sua grazia salvifica.
A conclusione, risulta evidente che tale struttura può essere particolarmente utile anche nella pastorale per i diversi gruppi etnici e in particolare per i migranti. La scarsità dei sacerdoti per i migranti può essere in parte supplita proprio con l’affidare alcune funzioni parrocchiali a laici particolarmente dotati, sulla base del c. 517 § 2. [top]
V. Osservazioni alla organizzazione della pastorale dei migranti
1. Continuità e novità
Abbiamo fatto menzione della pastorale per i migranti secondo i documenti della Chiesa. Non si può tuttavia non rilevare che qualche cosa si sta muovendo e che deve indurci alla riflessione.
Il Papa nel messaggio annuale che invia al mondo cattolico in occasione della giornata mondiale per l’emigrazione, pur all’interno della legislazione vigente, sottolinea ora un aspetto ora un altro del fenomeno delle migrazioni, secondo le urgenze[27]. In questi discorsi non è difficile rilevare che nei più recenti l’accento si sposta verso la realtà umana e sociale delle migrazioni; sui diritti fondamentali che sempre si devono rispettare. Di fatto l’attenzione della Chiesa, pur essendo in una prospettiva eminentemente spirituale e soprannaturale che le è propria e specifica, riguarda tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni. In una società come la nostra molto sensibile alla dimensione umana giustamente l’insegnamento della Chiesa non tralascia di dimenticare tali aspetti. Ma tali interventi vanno appunto visti nella prospettiva della Chiesa, la quale se non trascura l’uomo integrale, sa bene che l’uomo vero è quello chiamato a conformarsi al mistero di Cristo. Ogni discorso della Chiesa va pertanto interpretato sempre nella prospettiva del mistero di Cristo, l’uomo nuovo e vero a cui l’uomo, ogni uomo è chiamato a conformarsi. Intendere pertanto il discorso della Chiesa nella prospettiva umana e sui diritti umani, isolandolo dalla sua prospettiva specifica, induce a perdere il suo significato e la sua portata. Una pastorale pertanto che volesse fermarsi a queste prospettive semplicemente umane e sociologiche, pur valide, farebbe perdere ad esse il proprio significato pieno e soprattutto farebbe perdere alla Chiesa la specificità della sua presenza nel campo delle migrazioni.
Si aggiunga che l’unificazione sotto un unico dicastero di tutti fenomeni della mobilità umana, se da una parte ha fatto acquistare importanza al fenomeno della stessa mobilità umana, dall’altra può far perdere alla pastorale delle migrazioni la sua specificità e la sua forza. Non si deve dimenticare che i Padri conciliari hanno insistito sulla necessità della pastorale specifica delle migrazioni a differenza di quella di altri fenomeni della mobilità umana. Le motivazioni della pastorale specifica per la mobilità umana sono molto diverse e certamente molto più urgenti di quella per altri fenomeni. Quelle in modo particolare che riguardano il rispetto del patrimonio culturale, della impossibilità di avvalersi della pastorale locale e quindi della necessità di un sacerdote della propria lingua e quindi della esigenza di strutture specifiche permanenti finché i migranti si trovano nella loro situazione di migranti sono proprio della pastorale per i migranti. Per conservare poi la caratteristica propria della pastorale essa deve essere una cura di anime stabile, permanente e comunitaria. Là dove mancassero questi elementi non potremmo parlare propriamente di una pastorale per i migranti, con un sacerdote che ne ha la cura di anime, sia pure in modo cumulativo con il parroco del luogo. [top]
2. Valutazione conclusiva e prospettive
Questa forma di attività pastorale ha risposto certamente a delle esigenze profonde della comunità cristiana, ed ha aiutato tante persone a conservare e a crescere nella fede. Sarebbe sufficiente esaminare alcuni dati di fatto. Consta che là dove i fedeli cattolici sono stati accompagnati nel loro trapianto in altri paesi, essi non solo hanno conservato la fede, ma hanno trovato un terreno fertile per approfondirla, personalizzarla e farla crescere dentro di sé e testimoniarla con la vita. In non pochi casi l’emigrazione è stata l’occasione per risvegliarla e riavviare la pratica religiosa in modo convinto. Ha contribuito anche alla formazione di nuove chiese, che hanno avuto dall’afflusso dei migranti cattolici una linfa nuova e una presenza più consistente. Nelle grandi città, la presenza della Chiesa cattolica si è fatta viva e palpabile anche attraverso numerosi nuovi edifici di culto. La pluralità etnica delle diverse comunità cattoliche è stato un arricchimento difficilmente sopra valutabile. Là dove invece l’assistenza delle comunità cattoliche attraverso sacerdoti della stessa lingua non è stata possibile, i fedeli hanno finito per abbandonare la pratica religiosa e per ritrovarsi fuori della Chiesa cattolica ed inseriti in comunità cristiane non cattoliche o in movimenti non cristiani, a volte senza che se ne siano accorti. In questi casi la migrazione ha rivelato il suo volto di pericoli che la Chiesa giustamente intravedeva. La pastorale organizzata in favore dei migranti cattolici per preservare e promuovere la loro fede attraverso il ministero del sacerdote cattolico della stessa lingua e le strutture pastorali adeguate ha prodotto frutti preziosi per le anime e per la Chiesa.
Non possono modificare questo giudizio altamente positivo alcuni aspetti, per altro piuttosto marginali e secondari, che tale tipo di pastorale ha portato con sé. Tra essi, si può fare menzione di un certo nazionalismo, che talvolta si è introdotto in un modo più o meno palese in nome della fede o in occasione di essa. In nome della fede, si è insistito anche sulla cultura e sulla patria di origine. Questo può aver rallentato anche un inserimento nella comunità ospitante e isolato il gruppo etnico rispetto agli altri o dalla comunità della Chiesa particolare. Le diocesi hanno pullulato di chiese nazionali. Le chiese particolari hanno trovato una certa difficoltà a maturare una pastorale unitaria al loro interno. La preoccupazione di creare chiese e strutture, come le scuole, comportanti grandi pesi finanziari, ha portato talvolta a dare una rilevanza assorbente all’aspetto amministrativo e finanziario. L’organizzazione della pastorale per i migranti attraverso le grandi istituzioni come le chiese parrocchiali e le scuole o centri pastorali ha fatto sì che vi siano stati dei ritardi nell’inserimento dei gruppi etnici nella società e nello sviluppo del senso della Chiesa particolare. Si sono mantenute in piedi chiese nazionali quando forse esse non avevano più senso. Sono questi alcuni aspetti che hanno prestato il fianco a forti resistenze contro l’applicazione delle direttive della Chiesa circa l’organizzazione della pastorale per i migranti, sia nel passato che oggi.
Non è il caso di riprendere tutte queste obbiezioni e dare loro una risposta adeguata. L’organizzazione della pastorale è una realtà umana e i principi che l’hanno guidata ed accompagnata, anche se buoni, sono stati applicati da uomini che avevano i loro limiti. Tali aspetti negativi di cui abbiamo fatto menzione rientrano in questi limiti, che potremmo dire fisiologici e che per altro non vanno sopravvalutati ed enfatizzati. Tanto meno possono essere motivo per dare un giudizio negativo su un’opera grandiosa che ha portato effetti così benefici e salutari. In proposito basta la considerazione fatta sopra: la conservazione della fede delle comunità dei migranti è passata attraverso questo tipo di organizzazione; là dove esso è mancato, per diverse ragioni, la fede ha avuto grandi danni o è andata perduta.Èutile rilevare che se c’è stato anche qualche scisma questo non è avvenuto per la pastorale dei migranti, ma proprio perché si negava tale pastorale disattendendo il rispetto degli elementari diritti dei fedeli ad essere accettati e curati pastoralmente secondo la propria cultura.
Ciò detto, non si possono dimenticare i presupposti che erano presenti in tale tipo di pastorale per i migranti. Essa era organizzata in funzione del migrante cattolico, che, nell’uscire dalla propria patria per trapiantarsi altrove, correva il rischio di non avere l’aiuto necessario del sacerdote per il nutrimento e la crescita della propria fede; si doveva provvedere ad eliminare i pericoli che lo minacciavano nella sua fede. La strada più idonea è stata considerata il ministero del sacerdote della stessa lingua o nazione. L’emigrazione avveniva poi in un contesto di società cristiana, che privilegiava ancora la stabilità, tanto che nella mobilità vedeva prima di tutto un pericolo. Per di più in un contesto di Chiesa che al suo interno aveva chiaro il limite tra prima evangelizzazione, con tutte le strutture della Chiesa missionaria (Chiesa missionaria, implantatio Ecclesiae, territori di propaganda fide) e sviluppo e crescita della fede. Per di più il grande fenomeno delle migrazioni avveniva all’interno della comunità cristiana, sia pure lacerata dalle sue scissioni e divisioni. Il grande fenomeno delle migrazioni riguardava i cattolici, che in quel tempo abitavano paesi piuttosto poveri, rispetto ad altri paesi più ricchi, ma non cattolici, e in un contesto di solidità della istituzione familiare, particolarmente forte proprio nei paesi di tradizione cattolica. Infine la Chiesa cattolica aveva un’abbondante fioritura vocazionale, che le permetteva di disporre di sufficienti sacerdoti e di istituti religiosi appositi.
Si tratta di presupposti che oggi non esistono più o sono profondamente e largamente cambiati o sono fortemente attenuati. I migranti in buona parte sono ancora provenienti da paesi cattolici. Basta pensare alla grande massa di migranti di lingua spagnola del centro, e sud America, come pure della grande massa di Filippini. Per essi potrebbero, sotto questo profilo, essere ancora valide le direttive della Chiesa per la pastorale dei migranti, ma non senza tenere conto di altri cambiamenti di cui dovremo parlare. Ma non si può dimenticare che è in grande aumento l’emigrazione di masse umane immense che non sono cattoliche e che vanno nei paesi cattolici, nei quali però la società è profondamente cambiata e la religione non ha più molta rilevanza sociale e in cui in ogni caso i cattolici non praticano la loro religione. Soprattutto va rilevato che l’organizzazione dei cattolici nei paesi di accoglienza sta subendo un profondo cambiamento. Più in generale la religione non sembra aver più grande rilievo nelle società dei paesi industrializzati e di alta tecnologia in cui i migranti si trasferiscono. L’aspetto etnico delle comunità civili sta diminuendo sempre di più; e la società sembra accettare pacificamente il principio della globalizzazione, e della comunità universale. Numerosi sono i migranti non cattolici che si trasferiscono nei paesi che si proclamano ancora cattolici. Senza dubbio sta maturando una nuova mentalità, nella quale la religione non sembra per altro avere un ruolo decisivo, dal punto di vista sociale.
Non tutto è negativo in questa nuova mentalità. Le organizzazioni civili sulla base del principio della nazione, della razza, della lingua, come gruppi omogenei, perdono sempre di più peso. Il senso della stabilità cede il posto a quello della mobilità e del progresso. Il recupero dal punto di vista biblico del senso della vita come pellegrinaggio e come esodo, verso la nuova umanità come la grande famiglia che si va costruendo nel nome di Dio è senz’altro un aspetto grandioso[28].
All’interno di questa nuova realtà sembra certo che la pastorale dei migranti va conservata nella sua identità; gli strumenti di cui essa si è servita fino ad oggi sono ancora validi per i tipi di migrazioni che dal punto di vista pastorale rassomigliano ancora a quelli che corrispondono al modello per il quale essi sono stati approntati. Ma è innegabile che per altri campi delle migrazioni tali strumenti vanno rivisti e adeguati alla nuova realtà. [top]
3. Necessità di una adeguata formazione alla pastorale per i migranti
Voglio concludere con un accenno ad un problema che, a prima vista, non sembra direttamente ed immediatamente pastorale: quello cioè dello studio dei problemi che la mobilità umana pone[29]. La Chiesa è interessata a tali problemi, soprattutto da un punto di vista pastorale. La mobilità umana ha avuto sempre nella società una portata enorme; oggi ne ha più di ieri. Le ripercussioni religiose sono difficilmente valutabili. Eppure la Chiesa le deve conoscere per cercare i rimedi adatti. L’Istruzione De Pastorali Migratorum Cura, n. 21 (DSS, 2023; 2025) prevedeva una commissione di studio per i problemi dell’emigrazione. Della necessità di studiare i problemi delle migrazioni ha trattato anche il primo congresso per la pastorale migratoria tenuto a Roma nel 1978 (13); di essa parla anche la Lettera Chiesa e mobilità umana, n. 40: «La complessità e la frequente evoluzione che si registra nei fenomeni del movimento rende necessaria, per orientamento della pastorale, l’opera di istituzioni complementari, destinate a seguire tali fenomeni ed a darne oggettive valutazioni. Si tratta di centri pastorali per gruppi etnici, ma soprattutto dei centri di studio interdisciplinari, che raggruppino, cioè, le materie necessarie all’elaborazione ed all’attuazione della Pastorale. Sociologi, psicologi, antropologi, economisti, giuristi e canonisti, moralisti e teologi, incontrandosi e mettendo a confronto le loro conoscenze ed esperienze, insieme con i pastori d’anime, contribuiscono all’approfondimento dei fenomeni ed all’indicazione degli strumenti idonei.
Tali centri, già all’opera in diverse parti, sono destinati ad operare con maggiore efficacia se opportunamente coordinati tra di loro com’è richiesto, del resto, dall’indole internazionale della mobilità» (DSS, 2479-2481).
La Pontificia Commissione per la pastorale dei migranti, rendendosi conto che al compito devono essere interessati soprattutto i pastori di anime e gli operatori pastorali in genere, ha promosso lo studio interdisciplinare dei temi pastorali della mobilità con una serie di pubblicazioni che offrono, agli insegnanti e ai formatori nei seminari, materiale per sensibilizzare e preparare i giovani ad affrontare e risolvere, secondo le direttive della Chiesa, i problemi pastorali della cura pastorale dei migranti.
Nella stessa linea si colloca la pubblicazione dei documenti della Santa Sede, promossa dalla stessa Pontificia Commissione e la raccolta dei discorsi di Giovanni Paolo II sullo stesso argomento; così pure l’invio agli Ordinari di una lettera sulla formazione dei seminaristi ai problemi della pastorale migratoria, preparata congiuntamente dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica e dalla stessa Pontificia Commissione. Una lettera analoga, firmata congiuntamente dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e dalla stessa Pontificia Commissione (Consiglio) è stata inviata agli istituti religiosi, per sensibilizzarli e coinvolgerli nella pastorale dei migranti.
La Chiesa percepisce nel fenomeno della mobilità umana la grande sfida cui essa è chiamata a rispondere. La mobilità umana, al di là dei drammi umani e delle ingiustizie, di cui è vittima, può essere inquadrata in un disegno provvidenziale con cui Dio chiama i protagonisti della mobilità umana a personalizzare e rafforzare la propria fede e a creare nuove comunità di fede. Pastoralmente essa va letta ed affrontata in tale prospettiva. Nella mobilità umana, ha fatto naufragio la fede di molti cristiani (DSS, 431). Ma nello stesso fenomeno si possono cogliere non pochi aspetti e risultati positivi (DSS, 1982-1983; 2684, 2693, 1721).
«La mobilità umana – ci dice la lettera Chiesa e Mobilità umana n. 7 – non può essere ritenuta nemica della fede; e la Chiesa si sforza prudentemente di valorizzare quelle virtualità, che la rendono strumento di evangelizzazione» (DSS, 2389). «In molti casi – ci ricorda ancora la stessa lettera, n. 9 – la mobilità umana è stata determinante o almeno ha esercitato un notevole influsso sulla nascita e lo sviluppo di nuove chiese» (DSS, 2396). Così l’impegno per le migrazioni fa parte dell’impegno di evangelizzazione della Chiesa.
A queste esigenze ha inteso rispondere la Congregazione dei Missionari di San Carlo, Scalabriniani, dando vita al SIMI (Scalabrini International Migration Institute). [top]
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Episcoporum Conferentiae, praesertim Nationales, urgentioribus quaestionibus ad praedictos spectantibus sedulo studeant, et aptis instrumentis ac institutionibus spirituali eorum curae, concordi voluntate viribusque unitis consulant atque faveant, attentis in primis normis ab Apostolica Sede statutis vel statuendis, temporum, locorum et personarum condicionibus apte accomodatis” (CD, n. 18; DSS, nn. 1606-1607). In realtà l’impegno del Concilio Vaticano II per la cura pastorale dei migranti è stato molto più ampio del breve testo riportato sopra. Per di più il Concilio ha tenuto a precisare bene il concetto di migrante, da un punto di vista pastorale, da altri tipi di pastorale, come quella per gli operai o per i giovani, o da altri tipi di mobilità umana, come il turismo, o il pellegrinaggio, ecc. Cf. Velasio De Paolis. La pastorale dei migranti nei documenti conciliari, in Informationes SCRIS, 1989/2, pp.238-257.
V. De Paolis, La mobilità umana e il nuovo Codice di diritto canonico, in On the Move, 45, 1985, pp. 111-149.
Ma a proposito della esemplificazione va rilevato che essa è sempre incompleta, in quanto il principio generale include sempre tutti coloro che “a causa delle tristi condizioni delle proprie nazioni e delle discriminazioni sorte per motivi religiosi, lasciano la patria, sia temporaneamente, sia in modo definitivo”. Va ancora una volta sottolineato che in tale principio, l’elemento determinante che richiede la particolare sollecitudine è il fatto che le persone interessate si trovano in una situazione alla quale non è sufficiente la cura ordinaria, il fatto cioè che sono fuori della patria e quindi non trovano dei pastori della stessa lingua e cultura. Si capisce perciò perché la Commissione non ha voluto introdurre altre categorie nell’elencazione come “i fedeli che abitano nella periferia delle città”, gli operai, ecc. perché sono fedeli ordinari, di cui si prendono cura i pastori ordinari, sia pure con l’attenzione particolare che essi meritano (“Quaeritur ut mentio fiat in textu fidelium degentium in suburbio civitatum, quia peculiari sollicitudine indigent”). La risposta della Commissione fu: “Non admittitur quia illi fideles sunt ordinarii fideles quorum certo cura peculiaris habenda est, sed non contituunt singularem coetum”. Ad un’altra domanda analoga, “Quaeritur ut mentio etiam fiat de operariis, praesertim de iis qui in opificiis laborant”, la risposta fu ugualmente negativa: “Non admittitur quia illi pertinent ad gregem ordinarium, et non sunt peculiares coetus; in numero agitur de quibusdam fidelium specialibus coetibus” (Acta Synodalia, vol. IV, pars II, p. 568).
Così la cura speciale straordinaria per i migranti, esuli e profughi ecc. non è tanto per la difficoltà della loro situazione, ma perché essi in forza della loro situazione non possono usufruire in assoluto o neppure in parte del ministero ordinario della Chiesa, cioè dei parroci: e questo per il fatto che sono fuori della loro patria e quindi non in grado di avere la sufficiente comunicazione con essi. In tale prospettiva si capisce anche perché la Commissione non abbia mai accolto la proposta, perché il n. 18 riconoscesse il fatto della mobilità in quanto tale, come fenomeno universale e perpetuo, sia di individui che di famiglie, proprio del mondo di oggi, parlando “in modo più chiaro della universale migrazione come di un fenomeno ordinario, che riguarda tutti i pastori nei tempi attuali” (Mons. Rupp, costatato che “Grex nobis pastoribus commissus non iam stabili modo in his locis manet ubi sedes nostras habemus. Fit migratio perpetua individuorum, familiarum et coetuum. De hac migratione, quae characterem prae se fert essentialem in re pastorali hodierna, nihil vel fere nihil in textu habetur”, chiedeva che “par. 18 qui plus minusve de migrantibus agit recognoscatur at clarius de migratione universali loquatur tamquam de re ordinaria quae ad omnes pastores hisce in temporibus attinet” (Acta Synodalia, vol III, pars II, p. 75). La richiesta non fu accolta. Essa avrebbe svisato tutto il senso dell’interesse della Chiesa per i migranti come gruppo che ha bisogno di una assistenza specifica. Il Concilio non ha voluto parlare in modo generale delle migrazioni, ma dei fedeli che per la loro situazione non sono in grado di avvalersi della pastorale ordinaria, cioè dei parroci, per il fatto che hanno lasciato la loro patria e quindi non sono della stessa lingua dei parroci ordinari. Al Concilio non interessavano i fenomeni della mobilità umana in quanto fenomeni sociali, con le diversificazioni che essi comportano, ma i fenomeni in quanto esigono una pastorale straordinaria specifica, per il fatto che quella ordinaria non li può raggiungere, se non altro per la difficoltà della lingua e della cultura. Di qui si capisce come diversi fenomeni della mobilità umana vengono accomunati sotto una prospettiva pastorale unificante e altri, come il turismo, vengono invece diversificati, proprio nella prospettiva pastorale.Èl’idea di fondo che emerge chiaramente dai documenti e dagli atti conciliari e che si riscontra anche nei documenti postconciliari.Èpertanto il criterio interpretativo che deve accompagnarci nell’intendere le direttive della Chiesa in materia (Un’interpretazione corretta, in linea con il Concilio, hanno dato i documenti successivi, e in particolare l’Istruzione “De Pastorali Migratorum Cura”, n. 15 che in fedeltà al Concilio dà la nozione pastorale del migrante: “Licet huiusmodi hominum ordines haud parum inter se differant, ii tamen omnes in peculiaribus vitae condicionibus versantur, quae multum dissimiles sunt ab iis, qui in patria assueverant, ita ut adiumento parochorum loci frui haud valeant: quapropter Ecclesia materna sollicitudine contendit, ut ipsis opportunam pastoralem curam adhibeat. Proinde sub hac ratione pastorali, de qua in praesens agitur, in migratorum numero omnes recensentur, qui quavis de causa extra patriam aut propriam aethnicam communitatem degunt et ob veras necessitates peculiari curatione indigent” (in Chiesa e Mobilità Umana, Documenti della Santa Sede, n. 2004).
V. De Paolis, Aspetti canonici del magistero della S. Sede sulla mobilità umana, in Chiesa e Mobilità umana, A cura di G. Tassello e L. Favero, Vaticano 1985, pp. XXXI-XLIX. G. Rosoli, Alcune considerazioni storiche su S. Sede e fenomeno della mobilità umana, in Chiesa e mobilità umana, a cura di G. Tassello e L. Favero, Vaticano 1995, pp. XXI-XXII. Atti, Religiosi e mobilità umana, in “People On the Move”, n. 48. In seguito è stata pubblicata una lettera congiunta, firmata dai Prefetti della Congregazione per i Religiosi e della Congregazione per i Vescovi, con l’esplicito intento di rivolgere un invito ai Religiosi per un impegno pastorale per i migranti e rifugiati. Tale lettera è stata oggetto anche di studio sotto diversi profili (cf. Informationes SCRIS, 1989, 2). II Congresso mondiale della pastorale dell’emigrazione tenuto a Roma dal 14 al 19 ottobre 1985, in “On the Move”, n. 46. I Congresso mondiale della pastorale dell’emigrazione, in “On the Move”, nn 26-27.J.Sanchis, La pastorale due aux migrants et aux itinerants, in On the Move, 58(1991) 7-35.
Tuttavia tale ideale è difficilmente attuabile. C’è anzitutto il fatto della scarsità del clero: in tale situazione è piuttosto problematico trovare sacerdoti sufficienti, disposti ed adatti ad assumere tale ministero pastorale specifico. In ogni caso, almeno nei primi anni, una lingua imparata e una cultura studiata sui libri non sembrano sufficienti ad entrare veramente nell’animo dei migranti, ad aprire il loro cuore alla fiducia e alla comunicazione, in modo che possa loro essere trasmesso nella forma appropriata, il messaggio della fede e fare loro sentire l’accoglienza materna della Chiesa. Va evitata la contrapposizione tra sacerdoti del paese di origine e sacerdoti del paese di accoglienza. Le due iniziative vanno piuttosto integrate: sia perché il campo di lavoro è tale che vi è posto per tutti, sia perché la contemporanea presenza degli uni e degli altri può risultare di valido aiuto reciproco.
La stessa Costituzione poi prevede la costituzione di parrocchie personali (DSS, 1211), o missioni con cura di anime, con un sacerdote con le facoltà del parroco (DSS, 1213-1214).
W. Rubin, Lo stato giuridico del missionario dei migranti nelle diocesi d’immigrazione e la sua collaborazione con il clero locale, in On the Move, 8 (1973), 66-76. V. De Paolis, Il missionario per i migranti: carisma, compiti e preparazione, in On the Move, 39 (1983) 116-182. S. Vesoly, Cappellani dei migranti, in People on the Move, 54 (1988) 147-179.
G. Holkenbrink, Die rechtlichen Strukturen fuer eine Migrantenpastoral, Romae 1994, pp.301-304.