Jorge Miras, Romana 41 (2005), pp. 353-379.
I. Il secolarismo, una falsificazione della speranza
Gli interventi del magistero pontificio intorno all’inizio del terzo millennio si caratterizzano, fra l’altro, per un ricorso insistente e sempre più esplicito alla speranza cristiana. Nell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa la struttura stessa del documento è costruita in base alla considerazione del presente e del futuro dell’Europa dalla prospettiva di questa virtù teologale.
Uno dei passi che l’Esortazione post-sinodale dedica alla diagnosi della situazione culturale e sociologica del Vecchio Continente – perfettamente trasferibile, del resto, ad altri spazi geografici e umani – descrive con intensi tratti alcuni dei sintomi di un marcato “offuscamento della speranza”: “una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia […]. Molti non riescono più a integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quotidiana; cresce la difficoltà di vivere la propria fede in Gesù in un contesto sociale e culturale in cui il progetto di vita cristiano viene continuamente sfidato e minacciato; in non pochi ambiti pubblici è più facile dirsi agnostici che credenti; si ha l’impressione che il non credere vada da sé, mentre il credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata” [1].
Non è difficile collegare questa descrizione con quella che Giovanni Paolo II aveva tracciato, anni prima, del secolarismo[2], una visione del mondo e di tutto ciò che è umano che – per una persuasione teorica o per un pragmatismo metodico – si chiude alla prospettiva immanente, recidendo drammaticamente il significato delle realtà temporali e l’orizzonte esistenziale dell’uomo. “ ‘Non c’è da stupirsi – conclude Ecclesia in Europa – se in tale contesto si è aperto un vastissimo spazio per il libero sviluppo del nichilismo[3] in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell’edonismo cinico nella configurazione della vita quotidiana’. La cultura europea dà l’impressione di una apostasia silenziosa da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse” [4].
La relazione tra l’allontanamento dalla fede e la falsificazione della speranza è diretta: “Come hanno sottolineato i Padri sinodali, ‘l’uomo non può vivere senza speranza: la sua vita sarebbe votata all’insignificanza e diventerebbe insopportabile’. Spesso chi ha bisogno di speranza crede di poter trovar pace in realtà effimere e fragili” [5]
E immediate sono anche le conseguenze del disorientamento della speranza sul retto ordine dell’amore. Dopo aver enumerato alcune delle versioni più diffuse di una speranza alternativa, elaborata come surrogato di quella vera, Giovanni Paolo II conclude: “Tutto questo si rivela profondamente illusorio e incapace di soddisfare quella sete di felicità che il cuore dell’uomo continua ad avvertire dentro di sé. Permangono così e si acuiscono i segni preoccupanti del venir meno della speranza” [6].
Si tratta dello stesso circolo vizioso dell’assetato che, perdutosi nel deserto[7], scorge da lontano un miraggio che lo spinge a spendere le sue scarse energie correndo, in vista di una speranza illusoria, verso una meta che lo getterà nello sconforto, magari finché, scrutando di nuovo l’orizzonte, crederà di aver scorto là in lontananza il riflesso promettente di un’altra oasi e si sentirà obbligato a correre verso di essa, ricavando le forze dalla sua debolezza sempre maggiore… Non è un paradosso affermare che, se viene meno la speranza autentica, quanto più intensamente l’uomo si fa coinvolgere dalle realtà temporali, quanto maggiore è la speranza che depone in esse, tanto più si allontanerà dal suo significato e dal significato della propria esistenza, in una spirale di disperazione molto attiva – o anche iperattiva – ma non per questo meno dannosa.
Il Fondatore dell’Opus Dei, in una omelia del 1968 pubblicata in seguito con il titolo La speranza del cristiano, rifletteva sulla funzione insostituibile di questa virtù nella vita terrena: “Mi sento sempre spinto a rispettare e anche ad ammirare la tenacia di chi lavora con decisione per un ideale limpido. Tuttavia considero mio preciso dovere ricordare che tutto ciò che intraprendiamo quaggiù, quando è un’impresa esclusivamente umana, nasce sotto il segno della caducità […]. Tale precarietà non soffoca la speranza. Al contrario, quando riconosciamo la piccolezza e la contingenza delle iniziative terrene, quella fatica si apre all’autentica speranza, che eleva tutto l’umano affaccendarsi e lo trasforma in luogo di incontro con Dio. Il lavoro viene così illuminato da una luce perenne, che fuga le tenebre della disillusione. Ma se trasformiamo i progetti temporali in mete assolute, cancellando dall’orizzonte la dimora eterna e il fine per cui siamo stati creati – amare e lodare il Signore, e possederlo poi in Cielo -, le più brillanti iniziative si mutano in tradimenti e persino in strumenti per svilire le creature” [8].
Infatti, la visione secolarista non solo prescinde dalla sapienza della fede nel trattare le realtà umane, ma, nel confinare la persona nella prospettiva “ristretta in un ambito intramondano chiuso alla trascendenza” [9], elude la speranza e snatura la vera carità, a cominciare da un retto amore per il mondo[10]. Da qui l’affermazione contenuta nel citato passo della predicazione di San Josemaría: “Forse non esiste nulla di più tragico nella vita degli uomini che gli inganni sofferti a causa della corruzione o della falsificazione della speranza, quando questa virtù viene presentata in una prospettiva che non ha come oggetto l’Amore che sazia senza saziare” [11].
II. La secolarità cristiana nel cuore del “Vangelo della speranza”
Nell’affrontare l’urgente impegno di annunciare il “Vangelo della speranza” [12], al quale è chiamata tutta la Chiesa, può essere particolarmente fruttuosa la considerazione che il secolarismo si contrappone frontalmente alla secolarità cristiana: una disponibilità nei confronti del mondo nata dalla fede, radicalmente determinata dalla speranza autentica, e dunque capace di accogliere il mondo e tutto ciò che è umano[13] in un amore che non tradisce, ma realizza la persona sul piano personale della sua vocazione fondamentale all’Amore[14]. E questo al di là della caratteristica ambiguità[15] con cui – proprio a causa della stessa verità e consistenza che esse contengono[16] – si offrono alla nostra valutazione le realtà temporali.
L’atteggiamento adeguato nei confronti di questa persistente ambivalenza del mondo è indubbiamente una delle chiavi dell’autentica secolarità cristiana, nella misura in cui obbliga a rendere ragione della propria speranza[17] e a mettere alla prova la coerenza della fede nell’esistenza quotidiana. Solo la vera speranza permette di eliminare, in modo rispettoso della verità della creazione e senza strappi, la tensione tra l’esistenza mondana e l’aldilà; infatti “tale convincimento mi aiuta a comprendere che solo ciò che porta il sigillo di Dio rivela il segno indelebile dell’eternità, e il suo valore è imperituro. Perciò, la speranza non mi separa dalle cose di questa terra, ma mi accosta a codeste realtà in modo nuovo, cristiano, portandomi a scoprire in ogni cosa la relazione della natura – caduta – con Dio Creatore, con Dio Redentore” [18].
Questo accostamento nuovo alle cose terrene, frutto inconfutabile della speranza[19], è il fattore determinante che informa la secolarità cristiana: “Un cristiano sincero, coerente con la sua fede, agisce faccia a faccia con Dio, con visione soprannaturale; lavora in questo mondo che ama appassionatamente, impegnandosi nelle vicende della terra, con lo sguardo al Cielo” [20].
Non c’è dubbio che, dato che la Chiesa vive nel mondo e appare in esso come segno o sacramento universale di salvezza[21], si può parlare di una secolarità della Chiesa stessa; e si può anche considerare la dimensione secolare (ossia, la relazione con le realtà secolari) della vita cristiana di ogni fedele – con gli elementi distintivi e le sfumature corrispondenti alle diverse condizioni e vocazioni -, perché tutti, ministri sacri, fedeli consacrati e laici, partecipano, ciascuno in base al modo che gli è proprio, alla missione della Chiesa per la vita del mondo. Tuttavia, com’è noto, il Concilio Vaticano II, mentre proclamava la chiamata alla santità di tutti i fedeli[22] – insegnamento che Paolo VI considerò “come specialissimo compito dello stesso magistero conciliare e come sua ultima finalità” [23] -, indicò la secolarità come “carattere proprio” dei fedeli laici[24]. Nel caso dei laici, dunque, la secolarità – il carattere secolare della loro esistenza cristiana – appare come una peculiarità che definisce il loro modo proprio e specifico di cercare la santità e di partecipare alla missione evangelizzatrice della Chiesa.
Da questo punto di vista, nelle circostanze che caratterizzano l’inizio del terzo millennio – l’offuscamento teorico e pratico della speranza al quale ho fatto riferimento -, acquista un particolare rilievo la trascendenza evangelizzatrice della vocazione e della missione cristiana dei laici[25], ai quali “spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali” [26].
Lo ha sottolineato anche Giovanni Paolo II nella Esortazione postsinodale per l’Europa: “Irrinunciabile è l’apporto dei fedeli laici alla vita ecclesiale: è infatti insostituibile il posto che essi hanno nell’annunciare e servire il Vangelo della speranza, poiché ‘per mezzo loro la Chiesa di Cristo è resa presente nei più svariati settori del mondo, come segno e fonte di speranza e di amore’[27]. Pienamente partecipi della missione della Chiesa nel mondo, essi sono chiamati ad attestare come la fede cristiana costituisca l’unica risposta completa agli interrogativi che la vita pone a ogni uomo e a ogni società, e possono innestare nel mondo i valori del Regno di Dio, promessa e garanzia di una speranza che non delude” [28].
Ecco dunque la responsabilità peculiare dei fedeli laici, al servizio dell’uomo e del mondo: rivitalizzare tutte le realtà terrene, vivendole e contribuendo a configurarle grazie alla speranza che non delude[29], una missione che sarà molto favorita da una retta comprensione del significato del carattere secolare della loro vocazione cristiana [30].
III. Una comprensione cristiana del mondo
La maggior parte dei cristiani vivono profondamente coinvolti nelle vicende del mondo, tutti presi dalla dinamica delle realtà temporali, che assorbono la maggior parte delle loro energie e del loro tempo. Questo fatto costituisce una realtà umana e cristiana complessa, i cui diversi aspetti conviene valutare insieme per discernerne il senso nel piano di salvezza di Dio.
Uno degli aspetti è indubbiamente l’influenza negativa del “mondo”, che è stato scompigliato dal peccato: le creature, che finiscono con l’ergersi come rivali del Creatore, o anche le une delle altre; i beni e i desideri caduchi che, se sono considerati degli assoluti, possono accecare e fuorviare i cuori; gli interessi terreni, meschini o meno, che catturano l’uomo in una rete ingarbugliata di urgenze e di passioni, e minacciano di allontanare il suo sguardo dall’unico interesse capace di appagare le sue ansie di bene. In tal senso il “mondo”, come ambito di influenza del “principe di questo mondo” [31] ribelle al disegno di Dio, è nemico dell’anima, perché non solo non favorisce la vita cristiana, ma si oppone ad essa.
Tuttavia la riflessione cristiana sul mondo deve necessariamente tenere presenti anche altri aspetti; e specialmente la sua bontà originaria nel progetto di Dio e le conseguenze, non solo del peccato, ma anche della redenzione[32]. Una valutazione teologica del mondo che accentuasse in modo unilaterale, o semplicemente predominante, l’aspetto negativo, contribuirebbe necessariamente ad accrescere la contrapposizione tra le realtà di questo mondo e quelle dell’aldilà, e a considerare la vita nel mondo come un ostacolo, o almeno come una gravosa zavorra per la santità. Costituirebbe, perciò, in pratica, una falsificazione della speranza, di segno opposto a quello indotto dal secolarismo, ma ugualmente da respingere.
Nel corso della storia sono apparse diverse manifestazioni di questo modo di pensare nella dottrina e nella prassi della vita cristiana[33], per quanto le sue conseguenze vitali, con intensità e sfumature variabili, di solito non sembrano spingersi all’estremo. È in ogni caso innegabile che una valutazione prevalentemente negativa del mondo determina, più o meno esplicitamente, la limitazione della santità, in quanto possibilità reale ed effettiva, a una parte soltanto dei cristiani. Anche senza negare la potenza santificante che comporta la condizione di battezzato, questo indurrebbe a considerare che, in ogni caso, il mondo – inteso come le situazioni, l’ambiente circostante, il luogo ostile in cui si svolge la vita di molti fedeli – condiziona e, nel migliore dei casi, rende problematica una completa crescita della vita cristiana verso la sua perfezione. Da questo modo di vedere potrebbe derivare anche una sorta di inadeguatezza dei fedeli normali che volessero inserirsi, coscientemente e attivamente, nella loro insostituibile partecipazione alla missione evangelizzatrice.
Invece, una comprensione profonda ed efficace della verità della vocazione dei laici alla santità e all’apostolato, come obiettivo naturale – e dunque perseguibile – della loro esistenza cristiana, richiede come presupposto indispensabile una rinnovata valutazione teologica del mondo, sotto pena di ridurre la chiamata inequivocabile che risuona nella predicazione di Cristo a una esortazione bella e attraente, ma inattuabile nella pratica a causa di una irriducibile contrapposizione tra mondo e santità.
Le chiavi di questa comprensione si possono ricavare analizzando in che modo la dottrina del Concilio Vaticano II collega la pura realtà della vocazione universale alla santità e alla condizione dei fedeli che vivono nel mondo.
IV. La vocazione e la missione dei laici nella dottrina conciliare
Quando la Costituzione dogmatica Lumen gentium si riferisce in particolare ai laici, comincia col sottolineare ciò che essi hanno in comune con tutti i fedeli: “Dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio, e, nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano” [34]. In tal modo il Concilio conferma che i laici, inseriti in Cristo, sono chiamati come tutti gli altri fedeli a essere santi e a compiere la missione apostolica della Chiesa; chiarisce però allo stesso tempo che questo si compie in loro in un modo proprio e peculiare: “nella loro misura (suo modo)”.
Subito dopo, il testo conciliare descrive “la misura” in cui la vocazione cristiana si compie nei laici: “Il carattere secolare è proprio e particolare ai laici […]. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico e, in questo modo, a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e col fulgore della fede, della speranza e della carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le realtà temporali, alle quali essi sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo e crescano e siano di lode al Creatore e al Redentore” [35].
Nelle pagine che seguono commenterò alcune considerazioni[36] che possono contribuire a rendere più agevole la comprensione di questo testo conciliare. Ma prima di addentrarci in esse, mi sembra utile avvertire che, per valutare adeguatamente il significato e l’importanza di questa dottrina, è indispensabile comprendere che la chiamata universale alla santità si trasforma per ogni fedele in un’autentica vocazione personale[37]. In questa prospettiva, il carattere secolare dei fedeli laici appare in tutto il suo rilievo come la chiave fondamentale di un autentico ed efficace rinnovamento del significato della loro esistenza come vocazione cristiana.
1. La condizione secolare della vita laicale come modalità della vocazione cristiana
L’affermazione conciliare secondo cui “il carattere secolare è proprio e particolare ai laici” non dev’essere considerata una enunciazione semplicemente retorica di un fatto ovvio (che i fedeli laici vivono nel mondo e si dedicano alle vicende e alle realtà secolari). Si tratta, invece, di una dichiarazione dottrinale di grande importanza, che contiene in essenza la valutazione teologica delle realtà secolari che sostiene la universalità della vocazione cristiana alla santità e all’apostolato.
Con queste parole il Concilio vuole indicare esattamente che la condizione secolare della vita laicale non va considerata come un semplice fatto, né come “un dato esteriore e ambientale, bensì come una realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato” [38], perché questa realtà configura una modalità della vita cristiana, un modo di essere cristiano. Dice Giovanni Paolo II: “La comune dignità battesimale assume nel fedele laico una modalità che lo distingue, senza però separarlo, dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa. Il Concilio Vaticano II ha indicato questa modalità nell’indole secolare” [39].
Se si tiene presente la precedente puntualizzazione sulla chiamata alla santità come vera vocazione personale, si capirà meglio perché la secolarità non può essere concepita come un semplice dato ambientale (vale a dire, come un insieme di circostanze che influiscono sì sulla vita del fedele laico, ma dall’esterno: quasi un paesaggio o uno scenario nel quale si svolge la sua storia). In realtà, in ognuno dei fedeli laici esistenti la vocazione alla santità e il carattere secolare della loro esistenza non sono separabili: non è che da una parte c’è la vocazione cristiana e dall’altra, come circostanza assolutamente casuale, c’è il fatto di essere al mondo. La condizione di cristiano e il carattere secolare si trovano intrecciati nell’unità e totalità della vocazione personale.
È ciò che esprime questo brano di San Josemaría: “Il mio sogno – un sogno che è divenuto realtà – è che vi sia una moltitudine di figli di Dio che si santificano vivendo la condizione comune dei loro simili, condividendone le ansie, le aspirazioni, gli sforzi. Sento il bisogno di gridare loro questa divina verità: voi restate in mezzo al mondo non perché Dio si sia dimenticato di voi, non perché il Signore non vi abbia chiamati. Vi ha invitati a permanere in mezzo alle attività e agli impegni terreni facendovi capire che la vostra vocazione umana, il vostro lavoro, le vostre doti, lungi dall’essere estranee ai disegni divini, sono le cose che Egli ha santificato vivendole come offerta graditissima al Padre” [40].
In questo contesto, dunque, l’espressione “carattere secolare” – o, più brevemente, “secolarità” – significa esattamente il modo proprio di essere cristiani dei fedeli laici. Di conseguenza, stare nel mondo occupato nelle vicende terrene ed essere cristiano non possono essere concepiti in questo caso come due realtà contrapposte che, trovandosi insieme in una medesima persona, sarebbero indotte a entrare in conflitto limitandosi reciprocamente, in modo tale che l’incremento di una di esse andrebbe a detrimento dell’altra. Un errore del genere comporterebbe la convinzione, più o meno cosciente, che non si può essere pienamente secolari se si è pienamente cristiani, o pienamente cristiani se si conduce una vita pienamente secolare.
Se un fedele laico avesse una cattiva comprensione della secolarità o della vocazione cristiana, o di entrambe, nella sua vita si potrebbe introdurre facilmente una tensione, posta in termini disgiuntivi, tra questi aspetti del suo essere cristiano. Un conflitto simile non si può protrarre senza sboccare, prima o poi, nell’abbandono di una delle alternative, oppure – e non sarebbe meno grave – nella falsa soluzione di stabilire un compromesso precario tra vita cristiana e vita quotidiana, in una qualsiasi delle sue versioni conosciute (una superficiale “compatibilità” o una distinzione e una divisione, non meno superficiali, tra vita pubblica e vita privata; vita spirituale e “vita reale”; obbligo e devozione; credenze e scienza; logica della fede e logica delle realtà evidenti…). Naturalmente in ognuno di questi due casi – rottura o compromesso – sarebbe tristemente neutralizzata la forza trasformatrice della vocazione cristiana.
È certo comunque che non esiste alcuna contrapposizione né una relazione di pura casualità o di accomodamento tra secolarità e vocazione cristiana. Ben diversamente, per i fedeli laici la secolarità è la forma peculiare, sia della santità che della missione di evangelizzazione. L’affermazione di Giovanni Paolo II, dianzi citata, per cui il carattere secolare configura una “modalità della dignità cristiana” (ossia, della vocazione cristiana), equivale a dire che la vocazione alla santità e all’apostolato, che per sua stessa natura coinvolge tutta l’esistenza e non solo una parte di essa[41], avviene nei fedeli laici proprio come secolarità. Perciò il “carattere secolare” dei laici non è un semplice dato esterno, sociologico o ambientale, ma un carattere che possiede spessore vocazionale.
2. La comprensione del mondo come “luogo” di vocazione
Evidentemente l’affermazione della secolarità dei laici come categoria vocazionale comporta una valutazione del mondo e delle realtà temporali profondamente positiva: non negativa, ma neppure semplicemente neutra.
Una visione neutra del mondo si baserebbe sulla considerazione che le realtà temporali non hanno un significato definito – né buono né cattivo – in rapporto a Dio e al suo piano di salvezza, sicché il loro ordinamento a Dio sarebbe sempre estrinseco, esclusivamente opera dell’uomo. Così la vocazione e la missione dell’uomo di “ordinare secondo Dio” le cose temporali apparirebbe un tentativo di violentare le realtà del mondo attribuendo loro, in base alle credenze cristiane, un significato che per se stesse non avrebbero; e di imporre questo significato anche a quelli che professano altre credenze o non ne professano alcuna. Da questo punto di vista, se un fedele laico facesse in modo che la sua fede avesse influenza nella configurazione delle realtà del mondo, starebbe alterando la sua “mondanità”, la logica che sarebbe loro propria, come pure la sua personale condizione di uomo o donna di mondo. La sua secolarità sarebbe una semplice maschera, un pretesto per intrufolarsi nella dinamica di tali realtà, perseguendo fini confessionali.
Come abbiamo visto, però, non è possibile intendere il rapporto del fedele laico con il mondo “come un dato esteriore e ambientale, bensì come una realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato” [42]. Ebbene, è proprio questo significato in Gesù Cristo a dare ragione del significato ultimo della secolarità dei laici come realtà vocazionale.
Il libro della Genesi narra che Dio, dopo aver creato il mondo e l’uomo, vide che tutto ciò che aveva creato era buono, era molto buono[43]. Fin dal principio tutta la creazione materiale fa parte del piano amoroso di Dio sull’uomo: è intrinsecamente ordinata, orientata al suo bene. Secondo il disegno iniziale, il mondo e tutte le realtà del mondo fanno trasparire a modo loro la gloria del Creatore: racchiudono in se stesse una armonia, una bontà, che rimandano l’uomo a Dio[44].
La Genesi narra anche la caduta originale, per la quale il peccato e il disordine entrano nel cuore dell’uomo e, di conseguenza, anche nel mondo. Le realtà terrene perdono allora quella trasparenza originale e diventano opache, capaci di accecare l’uomo velando il suo sguardo e nascondendogli Dio. Con la proliferazione del peccato, poi, si va estendendo e aumentando la disintegrazione dell’armonia originale.
Ma Dio non abbandona l’uomo alla sua sorte, né lascia che si perda definitivamente: invia il proprio Figlio, “dal quale tutto fu fatto”, affinché, come vero Dio e vero uomo, redima l’uomo e restauri l’intera creazione. Ciò dimostra che per comprendere il significato della secolarità bisogna considerare il significato del mondo e delle cose create, alla luce del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, la ri-creazione di tutte le cose in Cristo[45].
Cristo è il “primogenito di ogni creatura, perché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra […]. Egli è il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di Lui riconciliare a sé tutte le cose, riappacificando con il sangue della sua Croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” [46]. E Dio, che ha riconciliato “a sé il mondo in Cristo” [47], ha affidato alla Chiesa “il ministero della riconciliazione” [48]: ha voluto che ogni cristiano, incorporato a Cristo dal battesimo, si associ alla missione redentiva del Figlio, che si estende anche alla restaurazione del significato primordiale di tutta la creazione, in modo che il mondo e tutte le cose create facciano trasparire nuovamente – con la novità di Gesù Cristo Risuscitato[49] – la gloria di Dio e attirino gli uomini verso di Lui.
Questo mistero di vocazione in Cristo è motivo e tema dell’inno di benedizione con il quale comincia la lettera agli Efesini: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità […]. Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in Lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” [50].
La valutazione positiva del mondo che è alla base della secolarità cristiana non è, dunque, un esercizio di affettuosa ingenuità, né un’accettazione rassegnata della realtà del male presente nel mondo, adottata come espediente per giustificare una vita cristiana meno esigente, condiscendente con ciò che è inevitabile. Al contrario, la valutazione ottimistica è dovuta alla fede incrollabile della Chiesa nella radicale forza restauratrice della redenzione, che si traduce in una chiara visione della secolarità – e, con le loro peculiarità, del carattere secolare dei laici – come vocazione a corredimere il mondo con Cristo: “Dobbiamo amare il mondo, il lavoro, le realtà umane. Perché il mondo è buono: il peccato di Adamo ruppe la divina armonia del creato, ma Dio ha inviato suo Figlio unigenito a ristabilire la pace. E così noi, divenuti figli di adozione, possiamo liberare la creazione dal disordine e riconciliare tutte le cose con Dio” [51].
Questo è l’esatto significato dell’affermazione, già trascritta, in cui la Cost. Lumen gentium (n. 31) indica l’intima compenetrazione della secolarità con la vocazione cristiana dei laici: “Ivi [nel mondo, in tutte le professioni e attività e nelle condizioni ordinarie della vita familiare e sociale] sono da Dio chiamati”. Il mondo, così inteso, è luogo della vocazione cristiana. E non solo luogo fisico, come una sorta di scenario, di sfondo o di ambiente nel quale si interpreta un ruolo – la vita cristiana – che non ha motivo di avere una relazione reale con esso (visione neutra del mondo), ma, richiamando una espressione del Concilio[52], l’esistenza dei fedeli laici – assunta in tutti e in ciascuno dei suoi aspetti dalla vocazione divina – “è come intessuta” con le realtà secolari. Perciò la vocazione divina dei laici non è una chiamata a salvarsi fuggendo o allontanandosi da queste realtà (visione negativa del mondo): “Non sono chiamati ad abbandonare la posizione ch’essi hanno nel mondo. Il battesimo non li toglie affatto dal mondo […], ma affida loro una vocazione che riguarda proprio la situazione intramondana” [53].
3. I cristiani stanno nel mondo come il lievito nella massa
Le espressioni che descrivono la vocazione-missione dei laici, nel passo conciliare di cui ci stiamo occupando, parlano di “ordinare secondo Dio” le realtà temporali; di “illuminarle e ordinarle […] in modo che siano fatte sempre secondo Cristo”. La natura di tale illuminazione e ordinazione deve intendersi anche alla luce delle conseguenze che emergono dal considerare la relazione dei fedeli laici con il mondo, la loro secolarità, a partire dal mistero dell’Incarnazione.
Come abbiamo visto, le realtà umane non sono neutre, ma posseggono realmente un significato: un ordine e un’apertura alla trascendenza che sono a esse intrinsechi, cioè che costituiscono la chiave più radicale della loro verità e della loro bontà. Quando quest’ordine viene infranto dal peccato, tutte queste realtà, che sono vincolate dal progetto del Creatore alla sorte dell’uomo, vanno incontro anch’esse a una alterazione “da dentro”: la loro intrinseca verità resta falsata e con ciò la bontà che gli è propria resta intaccata; un’alterazione che, in definitiva, rende difficile, e spesso impedisce, che le realtà umane avvicinino a Dio[54].
Le condizioni della vita umana di oggi, però, non sono estranee ai fedeli laici, dato che la loro esistenza personale, con tutto il suo significato vocazionale e con tutta la forza rivitalizzante che comporta la novità di Cristo, è come intessuta con esse. Anzi, la vocazione-missione dei laici fa parte del piano redentivo di Dio, della sua inalterabile fedeltà che lo porta a non abbandonare l’uomo e il mondo.
Infatti, se si considera il significato della secolarità alla luce dell’Incarnazione, si capisce immediatamente che il cristiano non è un forestiero: non viene al mondo da fuori, a prendere possesso di ciò che non gli appartiene, in nome della sua fede. Al contrario, i cristiani “stavano già” nel mondo: il mondo appartiene a loro come agli altri – di più, in un certo senso, perché è di Cristo, nel quale essi sono inseriti[55] -; e nel mondo “Dio li chiama”, non per sostituire la verità del mondo con un’altra logica ad esso estranea, ma per restaurare, ricuperare e portare alla pienezza la verità e il significato originari, intrinseci alle realtà umane, con la potenza rigeneratrice della redenzione. “Come uomo, il cristiano ha pieno diritto di cittadinanza nel mondo. Se poi accetta che Cristo viva e regni nel suo cuore, l’efficacia salvifica del Signore si manifesterà in tutte le sue opere” [56].
Il paragone evangelico del fermento, del lievito[57], evocato dal passo conciliare che stiamo esaminando, è particolarmente adatto a spiegare come viene compiuta la missione dei laici: adempiendo la funzione che è loro propria nel mondo, contribuiscono “alla santificazione del mondo da dentro, a somiglianza del fermento”. Effettivamente, il lievito non cambia la natura della massa, ma le conferisce il meglio di sé; non sta in essa come un corpo estraneo, ma è perfettamente mescolato ed è una parte omogenea della stessa massa – è la massa -; e, unendo la propria influenza benefica alle buone qualità naturali degli altri ingredienti, finisce col trasformarsi con essi, senza distinzione, in uno stesso pane. Il lievito solo non è il pane, ma la qualità del pane dipende, in gran parte, dalla sua azione.
V. Le tentazioni che neutralizzano la vocazione laicale
L’immagine del fermento chiarisce anche due caratteristiche irrinunciabili della vocazione e missione propria dei laici. Affinché il lievito adempia la sua funzione è indispensabile anzitutto che non rimanga fuori dalla massa, ma che si mescoli perfettamente con essa; e inoltre, che sia in buone condizioni, che non sia alterato, perdendo così la capacità di fermentare[58].
L’opportunità dell’esempio è evidente, se considerato in rapporto a questo ammonimento di Giovanni Paolo II: “Il cammino postconciliare dei fedeli laici non è stato esente da difficoltà e da pericoli. In particolare si possono ricordare due tentazioni alle quali non sempre essi hanno saputo sottrarsi: la tentazione di riservare un interesse così forte ai servizi e ai compiti ecclesiali, da giungere spesso a un pratico disimpegno nelle loro specifiche responsabilità nel mondo professionale, sociale, economico, culturale e politico; e la tentazione di legittimare l’indebita separazione tra la fede e la vita, tra l’accoglienza del Vangelo e l’azione concreta nelle più diverse realtà temporali e terrene” [59].
La gravità di queste tentazioni è dovuta alla loro capacità di neutralizzare l’efficacia divina della vocazione dei laici. Se, come stiamo considerando, la condizione laicale è una modalità peculiare della vita cristiana, la cui missione propria, grazie alla quale possiede una virtualità soprannaturale specifica, è santificare il mondo “da dentro”, a mo’ di fermento, è chiaro che la sua efficacia dipende dalla fedeltà al suo modo proprio di essere: alla sua secolarità. Questo richiede, essenzialmente e inseparabilmente, che i fedeli laici vivano pienamente immersi nelle realtà temporali con le quali la loro vita è intessuta; e che questa vita sia pienamente cristiana. Al primo si oppone l’idea – la tentazione – che la piena assunzione della vocazione cristiana da parte dei laici consista in un aumento della loro attività intraecclesiale; e al secondo, la tentazione del secolarismo, dello spirito mondano.
Per dare una risposta adeguata a queste due tentazioni[60] occorre spiegare, almeno nelle linee più essenziali, il significato ecclesiale della missione dei laici nel mondo e l’unità di vita; due questioni che in realtà potrebbero ridursi all’ultima, ma che conviene trattare separatamente per maggiore chiarezza.
1. Il significato ecclesiale della missione secolare dei laici
Il Sinodo dei Vescovi sui laici ha chiamato clericalizzazione[61] l’errore di concepire la promozione della vocazione e della missione dei fedeli laici come se consistesse fondamentalmente nell’esentarli dall’accedere a funzioni e incombenze prima riservate in esclusiva ai chierici, o se si trattasse di contare su una loro collaborazione a tali funzioni in una misura maggiore. Questa prima tentazione indicata da Giovanni Paolo II presuppone una concezione riduttiva della vita cristiana come vita intra-ecclesiale: la corresponsabilità di tutti i fedeli si ridurrebbe a condividere indiscriminatamente le attività ecclesiastiche; la comune partecipazione alla missione della Chiesa si identificherebbe, in pratica, con l’attività liturgica o con la collaborazione in iniziative e attività organizzate. Ma in questo modo il lievito non si mescolerebbe veramente con la massa, e la vocazione propria dei laici non produrrebbe i frutti voluti da Dio: la forza di rinnovamento della vita cristiana resterebbe, in pratica, impoverita.
Al contrario, se non si perde di vista che, secondo l’insegnamento conciliare che stiamo analizzando, il quid della vocazione peculiare dei laici nella Chiesa è la loro vita cristiana nel mondo, si comprende anche chiaramente che dedicarsi a tale missione nella vita secolare costituisce l’aspetto più sostanziale ed efficace della loro missione nella Chiesa (proprio perché richiede fedeltà alla vocazione).
Ancora una volta si deve affermare che non esiste qui un dilemma, un’alternativa: o missione nella Chiesa o missione nel mondo; ma che le due dimensioni convergono in una vera unità di vita, che è la manifestazione dell’unità e totalità della vocazione personale. Capire questo è decisivo, perché chiarisce che la qualità della vita cristiana e l’intensità dell’impegno e della partecipazione alla missione della Chiesa non si misurano in base alla maggiore o minore dedicazione – o disponibilità a dedicarsi – alle attività intra-ecclesiali. L’impegno cristiano e la dedicazione alla missione della Chiesa sono sempre pieni, in ognuno dei fedeli a seconda della loro vocazione personale. Questa pienezza di dedicazione richiesta dal carattere secolare della loro vocazione cristiana è una chiave essenziale per capire la missione dei laici[62].
Così, quando un laico vive con fedeltà le esigenze proprie della sua vocazione, un aspetto della sua esistenza o della sua attività, la sua vita cristiana e la sua dedicazione alla missione della Chiesa sono piene. Per ciò stesso, non può dirsi che partecipa di più alla missione della Chiesa chi assume più impegni o servizi intra-ecclesiali, né che i laici hanno una partecipazione alla missione della Chiesa limitata dato che si dedicano alle attività secolari, perché proprio la loro piena dedicazione come cristiani alle attività secolari è dedicazione alla missione della Chiesa, nella parte che è loro più congeniale per vocazione divina: “La vocazione dei fedeli laici alla santità comporta che la vita secondo lo Spirito si esprima in modo peculiare nel loro inserimento nelle realtà temporali e nella loro partecipazione alle attività terrene” [63].
I fedeli laici, membri vivi del Corpo di Cristo, proprio perché sono inseriti nella comunione che è la Chiesa – comunione con Dio e con tutti i fratelli -, sono essi stessi Chiesa[64], in modo tale che, mediante la loro vita e la loro attività – che costituiscono una delle modalità di questa diversità unita nella comunione[65] -, hanno la possibilità di compiere anche la missione della Chiesa nel mondo[66]. Tutta la vita dei laici, anche nelle manifestazioni più terrene e quotidiane, ha, dunque, una dimensione ecclesiale[67]; e la coscienza di questa realtà è, in chi la coltiva, un gradevole invito alla speranza e alla fedeltà. Chi è persuaso che la propria vita è fortemente radicata nella comunione della Chiesa non può avere sensazioni di lontananza, di distanza, rispetto alla vita ecclesiale, ma sente la forza e la responsabilità di sapere che, occupandosi delle realtà che per vocazione umana e cristiana gli è toccato vivere, egli è anche, mediante la comunione con Dio e con tutti i fratelli, la Chiesa che agisce, rendendo presente Cristo tra gli uomini.
2. Unità di vita
La dimensione ecclesiale di tutta l’esistenza del cristiano in virtù della comunione è una delle numerose conseguenze dell’unità di vita che la caratterizza radicalmente[68]. All’unità di vita si riferisce anche la seconda tentazione descritta da Giovanni Paolo II: quella di “legittimare l’indebita separazione tra fede e vita, tra l’accoglimento del Vangelo e l’azione concreta nelle più diverse realtà temporali e terrene”, un distacco di tale gravità per la vita cristiana e per l’efficacia della missione corredentrice che fu considerato dal Concilio Vaticano II “tra i più gravi errori del nostro tempo” [69].
Unità di vita significa che non si devono separare, contrapporre o suddividere i diversi aspetti e le diverse realtà che compongono l’esistenza del cristiano, a seconda che si considerino propri della sua condizione battesimale di figlio di Dio o della sua condizione di uomo e membro della società degli uomini. Indubbiamente l’esistenza di ogni persona è complessa, presenta una molteplicità di aspetti; però non si tratta di un semplice accumulo o di un amalgama di circostanze fra loro indipendenti. Sono differenti, ma realmente interconnesse, anzitutto perché configurano un’unica vita, con un solo protagonista – una persona – che non è divisibile, e inoltre perché tutte hanno una relazione, ognuno secondo la propria natura, con lo stesso fine ultimo al quale è ordinata l’esistenza di quella persona.
In un cristiano l’unità di vita deve essere in atto proprio come vita cristiana, perché il protagonista di quella esistenza specifica è, nel senso più profondo e definitivo, cristiano, e non semplicemente una persona che, fra gli altri vincoli circostanziali, ha un impegno che la lega alla Chiesa. Perciò non bisogna frapporre ostacoli tra l’esistenza umana e la vocazione divina, tra vivere nella Chiesa e vivere nel mondo, impegno per essere cristiano e obbligo di badare ad altre occupazioni, realtà di contenuto spirituale e realtà quotidiane, logica soprannaturale e logica terrena, fede e vita… Lo diceva con particolare forza il Fondatore dell’Opus Dei in una omelia del 1967, che condensava la sua predicazione costante fin dal 1928: “No, figli miei! Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere degli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che deve essere – nell’anima e nel corpo – santa e piena di Dio: questo Dio invisibile, lo troviamo nelle cose più visibili e materiali” [70].
Questo non significa, però, che tutti questi aspetti siano o debbano essere mescolati confusamente, perché in realtà sono differenti; o che la loro “unità” si compia in quanto alcuni assorbono e annullano gli altri. L’unità di ciò che è differente non è confusione, ma deve essere concepita secondo un modello teologico analogo a quello che descrive la peculiare compenetrazione – non assorbimento, annullamento o confusione – tra la grazia e la natura, il soprannaturale e il naturale: la grazia non distrugge né annulla la natura, ma l’assume, sanandola, e la eleva, portandola a trascendere la dimensione puramente umana.
a) L’unità di vita e il mistero dell’Incarnazione
Le cose stanno così perché anche l’unità di vita rimanda, come ogni autentica dimensione della secolarità, al mistero dell’Incarnazione del Verbo. La sua comprensione si basa sulla considerazione di due verità fondamentali radicate in questo mistero: che il Verbo di Dio, nell’incarnarsi, ha assunto tutto ciò che è umano; e che la vocazione cristiana – vocazione in Cristo – riguarda tutta la persona. Vediamo brevemente che cosa comporta il fondamento dell’unità di vita.
Il fatto che il Figlio di Dio, nel farsi vero uomo, ha assunto tutto ciò che è umano, ha come conseguenza che non vi sono realtà umane rimaste escluse dalla redenzione. Tutte sono state rese da Cristo via e occasione di compimento della volontà del Padre. Il nuovo Adamo, Capo della creazione ricapitolata in Lui, è l’unico che può dire con pieno senso le parole di Terenzio: “Sono un uomo e ritengo che nessuna realtà umana mi sia estranea” [71].
Non esiste, dunque, nessuna cosa umana nobile che non abbia rapporto con la vita cristiana: “Non c’è nulla che sia estraneo alle attenzioni di Cristo. Parlando con rigore teologico, senza limitarci a una classificazione funzionale, non si può dire che ci siano realtà – buone, nobili, e anche indifferenti – esclusivamente profane: perché il Verbo di Dio ha stabilito la sua dimora in mezzo ai figli degli uomini, ha avuto fame e sete, ha lavorato con le sue mani, ha conosciuto l’amicizia e l’obbedienza, ha sperimentato il dolore e la morte” [72]. Questa dimensione dell’Incarnazione, che illumina la verità più profonda delle cose, riguarda, senza distinzione, le realtà umane di maggior rilievo e anche quelle più umili e ordinarie: “Sappiatelo bene: c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire” [73].
D’altra parte l’affermazione secondo cui la vocazione riguarda tutta la persona vuol dire, come abbiamo visto nel trattare il significato vocazionale della condizione secolare dei laici, che non si tratta di un aspetto parziale dell’esistenza, ma che, situandosi nell’ordine dell’essere, dell’identità[74], si estende a tutti gli aspetti della personalità e tende a coinvolgere tutto l’agire. Il cristiano, incorporato a Cristo, fatto altro Cristo dalla grazia battesimale, deve assumere come Lui tutta la realtà con senso redentivo, perché niente di ciò che è umano è estraneo alla sua vita in Cristo e il vivere in Cristo abbraccia tutte le dimensioni della sua esistenza personale.
Così dunque l’unità di vita non è una unificazione artificiale e forzata, un progetto volontarista, ma ha una base umana reale, perfezionata soprannaturalmente: essa costituisce lo sviluppo armonico dell’economia, naturale e soprannaturale allo stesso tempo, dell’Incarnazione. Le cose stanno così al punto che, a mio giudizio, si può spiegare con precisione il significato dell’unità di vita applicando analogicamente a questo ambito la formula con la quale il Concilio di Calcedonia confessava l’unità delle due nature, divina e umana, nella persona di Cristo: “[…] senza confusione, senza mutazione, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature in nessun modo viene meno a causa della loro unione, ma anzi restano salvaguardate le proprietà di ciascuna natura e concorrono a formare un solo soggetto e una sola persona” [75].
b) Unità di vita e coerenza cristiana
L’unità di vita è, dunque, un’aspirazione realizzabile, perché ha una base reale: non vi sono ostacoli da parte delle realtà del mondo, perché, senza perdere i propri valori naturali, la propria autonomia[76], tutte possiedono un profondo e definitivo significato cristiano; e neppure da parte del cristiano, il quale, pur continuando a essere un uomo come gli altri, è chiamato a vivere e operare fra queste realtà, non come quelli che “non hanno speranza” [77], ma in modo tale da essere, per lui e per gli altri, pienamente umane e nello stesso tempo, e proprio per questo, pienamente trascendenti: occasione e luogo di incontro con Dio, materia di santificazione[78]. Proprio questo deve far valutare ai fedeli laici la dimensione vocazionale della loro responsabilità in ciò che riguarda l’adempimento fedele dei loro doveri di stato[79].
Nonostante quello che abbiamo detto, non c’è dubbio che la vita quotidiana di ogni persona appare frammentata e divisa in molti sensi: fede e ragione, testa e cuore, dovere e piacere, presente immediato e futuro, illusioni e realtà, diversità di ambienti, dedizione, fedeltà, preoccupazioni e interessi… Perciò l’unità di vita non avviene automaticamente, ma è necessario conquistarla, alla luce della scoperta personale che tutto può e deve tendere allo stesso fine ultimo, cioè Dio, indipendentemente dal fatto che il fine immediato sia diversissimo. Questa, evidentemente, è la prospettiva caratteristica della speranza: con “questo intenso slancio umano della speranza cristiana” [80] ogni circostanza si può trasformare in un cammino di fedeltà alla vocazione, secondo il consiglio paolino: “Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” [81].
La conquista dell’unità di vita consiste, dunque, nel far proprio sempre più pienamente il senso vocazionale della propria esistenza. Ciò ha un’importanza tale che si può ben dire che lo sforzo di discernere in ogni circostanza ciò che esige la coerenza verso la propria vocazione, nei diversi aspetti della vita, è il cammino della maturità cristiana. Un cristiano è maturo nella misura in cui ciò che fa spontaneamente – ciò che gli chiede la sua libertà – è considerare le cose e prendere le decisioni con senso soprannaturale, con una comprensione profonda della propria vocazione e missione.
Comportarsi con naturalezza, per un cristiano, è esattamente vivere questa coerenza. Sarebbe profondamente sbagliato pensare alla naturalezza come se fosse normale comportarsi in modo che non si notino la fede e la speranza, che il comportamento di un cristiano non possa distinguersi da coloro che vivono mossi dall’interesse e dai criteri puramente mondani[82]. Questa falsa naturalezza vorrebbe dire, in realtà, cedere alla tentazione di spezzare l’unità di vita: in questo modo, la luce non illuminerebbe più, il sale perderebbe il sapore, e invece di santificare il mondo il discepolo di Cristo tornerebbe a essere un mondano[83].
In fin dei conti, l’efficacia della vocazione e della missione dei laici consiste necessariamente nel capire che il carattere secolare della loro vita è un cammino personale di fedeltà a Cristo e che l’autentica naturalezza della loro condotta consiste nell’essere fedeli nel mondo.
c) Unità di vita e missione apostolica dei laici
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, nel trattare della missione apostolica dei laici, ricorda la dottrina conciliare secondo la quale “i laici, come tutti i fedeli, in virtù del Battesimo e della Confermazione, ricevono da Dio l’incarico dell’apostolato; pertanto hanno l’obbligo e godono del diritto, individualmente o riuniti in associazioni, di impegnarsi affinché il messaggio divino della salvezza sia conosciuto e accolto da tutti gli uomini e su tutta la terra” [84]. Di seguito, presenta sinteticamente la dottrina conciliare sulla partecipazione dei laici nella triplice funzione – sacerdotale, profetica e reale – di Cristo, indicando diverse manifestazioni di tale missione apostolica. Mi limiterò a sottolineare ora, nel segno di questa dottrina, che l’unità di vita, con la coerenza e la naturalezza cristiana come manifestazioni operative, chiarisce anche che la missione apostolica dei fedeli laici deve esprimersi e compiersi in modo inseparabile dalla loro secolarità[85].
La prima conseguenza di questa realtà è che, per le stesse ragioni per le quali non è possibile separare chiamata alla santità e vita nel mondo, la missione apostolica va indissolubilmente unita alla vita ordinaria, senza ridurla a certe attività formalmente qualificabili come “apostolato”, che fanno anche parte della missione laicale. La seconda è che, pertanto, la missione apostolica non è una occupazione occasionale o intermittente, ma, in quanto elemento essenziale della vocazione cristiana[86], dev’essere presente in tutte le manifestazioni della vita, allo stesso modo che “non è possibile separare in Cristo il suo essere Dio-Uomo e la sua funzione di Redentore” [87].
È dunque impossibile compilare un elenco esauriente delle manifestazioni dell’apostolato dei laici, che sono tanto diverse e costanti quanto le situazioni e le vicissitudini della vita nel mondo. Non c’è dubbio, però, che la missione di “illuminare e ordinare tutte le realtà temporali, alle quali essi sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e al Redentore” [88], dev’essere compiuta, in primo luogo, negli ambiti più caratteristici della vita ordinaria: famiglia, lavoro, amicizia, convivenza. Considerata in questa prospettiva, ogni cosa acquista un rilievo apostolico: l’ottimismo nei progetti familiari, la collaborazione nei lavori di casa, la puntualità e il buon esempio nel lavoro, la sobrietà nello stile di vita, la conversazione con i vicini, la scelta del vestiario o del luogo di vacanza.
Oltre a mettere in rilievo questa dimensione apostolica della vita quotidiana, il Concilio chiama con forza i laici ad assumersi le loro responsabilità nella missione apostolica specialmente in quei luoghi, circostanze e attività nei quali la Chiesa può essere sale della terra solo attraverso di essi[89]. Si tratta di una esigenza propria e specifica del carattere secolare della loro vocazione: “Oggi, in particolare, il prioritario compito della nuova evangelizzazione, che investe l’intero popolo di Dio, richiede […] il pieno ricupero della coscienza dell’indole secolare della missione del laico. Questa impresa spalanca ai fedeli laici gli orizzonti immensi, alcuni dei quali ancora da esplorare, dell’impegno nel secolo, nel mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo, della ricerca scientifica, del lavoro, dei mezzi di comunicazione, della politica, dell’economia, ecc., e chiede loro la genialità di creare sempre più efficaci modalità affinché questi ambiti trovino in Gesù Cristo la pienezza del loro significato” [90].
In questo campo non esiste “la soluzione” o “la posizione” cattolica. In ognuno di questi ambiti l’iniziativa e la responsabilità sono personali ed esclusive di ciascun fedele laico: non si tratta qui di cooperare negli apostolati della Gerarchia ai quali i fedeli possono essere opportunamente chiamati[91], e che si svolge, logicamente, in base alle direttive e alle indicazioni della legittima autorità ecclesiastica. La libertà di cui gode ogni fedele nelle materie temporali[92] richiede la “genialità”, l’inventiva, di cercare caso per caso il modo più appropriato di illuminare più cristianamente, di mettere a fuoco i problemi o di cooperare a risolverli, in modo coerente con la fede. Non è, dunque, una libertà che “liberi” dalla coerenza della fede, ma la gioiosa libertà di essere fedele.
Lo diceva con chiarezza il Fondatore dell’Opus Dei nell’omelia, già citata, del 1967: “Un uomo consapevole che il mondo – e non solo il tempio – è il luogo del suo incontro con Cristo, ama questo mondo, si sforza di raggiungere una buona preparazione intellettuale e professionale, e va formando – in piena libertà – il proprio criterio sui problemi dell’ambiente in cui opera; e di conseguenza prende le sue decisioni che, essendo decisioni di un cristiano, sono anche frutto di una riflessione personale, umilmente intesa a cogliere la Volontà di Dio in questi particolari piccoli e grandi della vita. Ma a questo cristiano non viene mai in mente di credere o di dire che lui scende dal tempio al mondo per rappresentare la Chiesa, e che le sue scelte sono le soluzioni cattoliche di quei problemi. Questo non va, figli miei! Un atteggiamento del genere sarebbe clericalismo, cattolicesimo ufficiale o come volete chiamarlo. In ogni caso, vuol dire violentare la natura delle cose […]. È evidente che, in questo terreno, come in tutti, voi non potreste realizzare questo programma di vivere santamente la vita ordinaria, se non fruiste di tutta la libertà che vi viene riconosciuta sia dalla Chiesa che dalla vostra dignità di uomini e di donne creati a immagine di Dio. La libertà personale è essenziale nella vita cristiana. Ma non dimenticate, figli miei, che io parlo sempre di una libertà responsabile. Interpretate quindi le mie parole per quello che sono: un appello all’esercizio – tutti i giorni e non solo nelle situazioni di emergenza – dei vostri diritti; e all’esemplare compimento dei vostri doveri di cittadini – nella vita politica, nella vita economica, nella vita universitaria, nella vita professionale –, addossandovi coraggiosamente tutte le conseguenze delle vostre libere decisioni, assumendo la responsabilità dell’indipendenza personale che vi spetta” [93].
V. Formazione e vita interiore, i supporti della secolarità cristiana
Per ottenere che si consolidi l’unità di vita e le opere mostrino quella coerenza che nella vocazione cristiana è segno di maturità, vi sono due mezzi irrinunciabili, “che sono come i cardini vitali della condotta cristiana: la vita interiore e la formazione dottrinale, cioè la conoscenza profonda della nostra fede” [94].
Vedevamo prima che l’affermazione cristiana secondo cui il mondo è buono non è dovuta a un atteggiamento ingenuo, né vuole sottovalutare le manifestazioni del male presenti nel mondo. Non significa, come sappiamo, che tutte le realtà, che oggi di fatto si presentano in preda al disordine, conseguenza del peccato, siano perfettamente buone; ma che hanno in se stesse un senso, una verità che le ordina a gloria di Dio e che è necessario scoprire e ricuperare.
Per questi motivi sarebbe la manifestazione di una falsa naturalezza pensare che la secolarità consista semplicemente nel vivere nel mondo facendo propria la logica delle realtà terrene così come si trovano nella realtà[95]. Se così fosse, bisognerebbe dimenticare la forte affermazione di S. Paolo: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto” [96]. Il tenore stesso di questo testo paolino ci mostra che la speranza è l’antidoto specifico della falsa naturalezza.
In realtà la naturalezza, lo abbiamo già detto, non è il predominio della logica mondana nella propria vita, ma la coerenza cristiana di vivere le realtà del mondo alla luce della relazione personale con il piano di Dio. Perciò, come abbiamo visto, si oppongono alla secolarità sia l’abbandono, da parte dei laici, della loro missione cristiana nel mondo, sia il contagio dello spirito mondano: l’imborghesimento. Per evitare questo pericolo è imprescindibile una formazione cristiana che offra ai fedeli la capacità di distinguere il bene dal male, di giudicare prima di tutto ciò che fa piacere a Dio[97], senza lasciarsi guidare acriticamente dai criteri di comportamento imperanti, da quello che tutti fanno o da quello che di fatto avviene[98].
“Il cristiano deve essere sempre pronto a santificare la società dal di dentro, collocandosi pienamente nel mondo, ma senza essere del mondo in tutto quello che esso contiene – non per sua intrinseca proprietà, ma per difetto volontario, per il peccato – di negazione di Dio, di opposizione alla sua amabile volontà salvifica” [99]. Per vivere nel mondo restando fedeli alla missione di purificare tutte le realtà umane e ordinarle secondo Dio è necessaria una intensa formazione cristiana, che per questa ragione il Codice di Diritto Canonico ha formulato come un diritto fondamentale dei fedeli e, particolarmente, dei laici[100].
I fedeli, oltre alla loro formazione professionale e umana, debbono sforzarsi di acquisire, prima di tutto, una chiara formazione dottrinale: una conoscenza delle verità della fede esatta e profonda in base alla capacità di ciascuno; una retta antropologia cristiana; la scienza morale essenziale, specialmente per ciò che si riferisce alle questioni etiche più direttamente legate alla propria professione e alle circostanze in cui ci si trova; una conoscenza solida della dottrina sociale della Chiesa. Ma tutti questi elementi debbono essere orientati, non alla semplice erudizione, ma a una vera formazione della coscienza personale[101], compito che richiede un particolare impegno e dedicazione da parte degli stessi laici e dei pastori perché la coerenza cristiana deve mettersi in evidenza proprio in una vita secolare basata sulla più ampia libertà di decisione e di azione[102]. I cristiani debbono trovarsi sempre nelle condizioni di rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro[103], ma anzitutto a loro stessi, sapendo affrontare tutte le vicissitudini della loro esistenza terrena con la visione trascendente di una speranza fondata e illuminata, capace di accogliere e discernere nella loro prospettiva di totalità umana e soprannaturale le mutabili situazioni e realtà della vita nel mondo.
A tal fine, è importante tenere presente che nella vita cristiana la formazione non può ridursi a una semplice informazione, più o meno dettagliata. La vita cristiana non è una filosofia o una serie di opinioni, ma una relazione personale con Cristo. Non basta, dunque, conoscere più o meno profondamente una dottrina, un insieme di proposizioni, sul piano teorico; la formazione, invece, deve farsi vita, unità di vita: “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande” [104].
A poco servirebbe, dunque, la conoscenza della fede se non si intrattenesse un sincero rapporto personale con Gesù. Coltivare la vita spirituale è condizione indispensabile dell’unità di vita. Non si può perseverare nella coerenza della fede se non si vive intensamente la relazione personale con Dio in cui consiste la vocazione, la sola che può convertire.
Fonte e apice[105] della vita spirituale è l’Eucaristia, che costituisce il suo “centro e radice” [106]. I cristiani, divenuti partecipi del sacerdozio di Cristo mediante il battesimo – il sacerdozio comune dei fedeli[107] – sono abilitati e chiamati a unire l’intera loro esistenza al Sacrificio di Cristo, il grande atto redentivo nel quale tutta la creazione, assunta dal suo Capo, diviene offerta gradita al Padre nello Spirito Santo: “Tutte le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo; e queste cose nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme all’oblazione del corpo del Signore. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso” [108].
L’Eucaristia diventa, così, un grandioso centro d’attrazione dell’unità di vita, anzitutto per la propria natura di attualizzazione sacramentale del mistero pasquale di Gesù Cristo: “C’è, nell’evento pasquale e nell’Eucaristia che lo attualizza nei secoli, una ‘capienza’ davvero enorme, nella quale l’intera storia è contenuta, come destinataria della grazia della redenzione” [109]; un “carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico! Perché anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo. Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla. E così Lui, il sommo ed eterno Sacerdote, entrando mediante il sangue della sua Croce nel santuario eterno, restituisce al Creatore e Padre tutta la creazione redenta. Lo fa mediante il ministero sacerdotale della Chiesa, a gloria della Trinità Santissima. Davvero è questo il mysterium fidei che si realizza nell’Eucaristia: il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a Lui redento da Cristo” [110].
Insieme a questa essenziale e oggettiva dimensione redentiva, e proprio a causa di essa, l’Eucaristia stimola una progressiva cristianizzazione delle disposizioni soggettive dei fedeli: “Si comprende allora come la Messa sia il centro e la radice della vita spirituale del cristiano, e come sia anche il fine di tutti i Sacramenti. La vita della grazia, generata in noi dal Battesimo, fortificata e accresciuta dalla Confermazione, si avvia nella Messa verso la sua pienezza. Quando partecipiamo dell’Eucaristia – scrive S. Cirillo di Gerusalemme – sperimentiamo la spiritualizzazione deificante dello Spirito Santo che non solo ci configura con Cristo, come avviene nel Battesimo, ma ci cristifica per intero, associandoci alla pienezza di Cristo Gesù […]. Forse qualche volta ci siamo domandati come poter corrispondere a tanto amor di Dio, e forse vorremmo vedere esposto chiaramente un programma di vita cristiana. La soluzione è facile ed è alla portata di tutti i fedeli: partecipare con amore alla Santa Messa, imparare nella Messa a mettersi in rapporto con Dio, perché in questo Sacrificio è contenuto tutto ciò che il Signore vuole da noi” [111].
Questo imparare a trattare Dio è decisivo perché, volendo che l’anima cristiana diventi sensibile alla veemente attrazione che la spinge a offrire la propria vita con Cristo per la salvezza del mondo, insieme all’Eucaristia e agli altri sacramenti – e specialmente il ricorso frequente alla Penitenza -, è indispensabile la vita personale di preghiera. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, in modo assai significativo, intitola il primo dei capitoli che dedica alla preghiera: “La chiamata universale alla preghiera”, un evidente suggerimento per cui non è possibile essere fedele alla vocazione cristiana alla santità e all’apostolato se non si è fedeli alla chiamata, non meno personale, alla preghiera[112]. Una preghiera che può avere un gran numero di forme e manifestazioni, ma che deve condurre ogni fedele all’amicizia personale con Dio, alla compenetrazione vitale con Gesù. “Così vissero i primi cristiani, e così dobbiamo vivere tutti noi: la meditazione della dottrina della fede, fino ad assimilarla pienamente, l’incontro con Cristo nell’Eucaristia, il dialogo personale – la preghiera senza anonimato – a tu per tu con Dio, devono arrivare a essere come la sostanza della nostra condotta. Se dovessero mancare, ci potrebbero pur essere la riflessione erudita, l’attività più o meno intensa, le devozioni e le pratiche di pietà. Ma non ci sarebbe autentica esistenza umana, perché mancherebbe la compenetrazione con Cristo, la partecipazione reale e vissuta all’opera della salvezza” [113].
La formazione cristiana raggiunge il suo significato più alto quando istruzione dottrinale e vita spirituale si compenetrano in profonda unità, perché, in definitiva, la formazione consiste nella identificazione con Cristo, nel permettere che l’azione dello Spirito Santo formi Cristo in ogni fedele, secondo la nota esclamazione di S. Paolo: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi” [114]. Vita spirituale e formazione coincidono nel loro significato più profondo sotto l’azione dello Spirito santificatore, favorite dalla docilità del cristiano che coltiva con generosità la vita della grazia: “Lo Spirito Santo forma dall’interno lo spirito umano secondo il divino esemplare che è Cristo. Così, mediante lo Spirito, il Cristo conosciuto nelle pagine del Vangelo diventa ‘la vita dell’anima’ e l’uomo nel pensare, nell’amare, nel giudicare, nell’agire, persino nel sentire è conformato a Cristo, diventa ‘cristiforme’ ” [115].
Questo vivere secondo lo Spirito fa sì che le stesse realtà della vita quotidiana, divenute luogo e materia della vita di preghiera, vengano riscoperte con lo sguardo di Cristo. Si riconosce così la propria esistenza come un’offerta che alla fine può avere un valore di corredenzione, se unita al Sacrificio di Cristo nell’Eucaristia, nella quale si realizza l’unità perfetta tra vita ordinaria, santità e apostolato, e si fa presente la ragione stessa della speranza. Lo scriveva Giovanni Paolo II nella sua ultima Enciclica, con una riflessione sulla Chiesa che appare applicabile a ogni cristiano: “La Chiesa vive dell’Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa. Con gioia essa sperimenta in molteplici forme il continuo avverarsi della promessa: ‘Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’ (Mt 28,20); ma nella sacra Eucaristia, per la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, essa gioisce di questa presenza con un’intensità unica. Da quando, con la Pentecoste, la Chiesa, Popolo della Nuova Alleanza, ha cominciato il suo cammino pellegrinante verso la patria celeste, il Divin Sacramento ha continuato a scandire le sue giornate, riempiendole di fiduciosa speranza” [116].
[1] 1. GIOVANNI PAOLO II, Es. Ap. Ecclesia in Europa, [d’ora in poi EiE], 28.VI.2003, n. 7.
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[2] 2. “Come non pensare alla persistente diffusione dell’indifferentismo religioso e dell’ateismo nelle sue più diverse forme, in particolare nella forma, oggi forse più diffusa, del secolarismo? Inebriato dalle prodigiose conquiste di un inarrestabile sviluppo scientifico-tecnico e soprattutto affascinato dalla più antica e sempre nuova tentazione, quella di voler diventare come Dio (cfr. Gn 3,5) mediante l’uso d’una libertà senza limiti, l’uomo taglia le radici religiose che sono nel suo cuore: dimentica Dio, lo ritiene senza significato per la propria esistenza, lo rifiuta ponendosi in adorazione dei più diversi ‘idoli’. È veramente grave il fenomeno attuale del secolarismo: non riguarda solo i singoli ma in qualche modo intere comunità, come già rilevava il Concilio: ‘Moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione’. Più volte io stesso ho ricordato il fenomeno della scristianizzazione che colpisce i popoli cristiani di vecchia data e che reclama, senza alcuna dilazione, una nuova evangelizzazione” (GIOVANNI PAOLO II, Es. Ap. Christifideles laici, [d’ora in poi CL], 30.XII.1988, n. 4).
[3] 3. Quest’altro passo del Magistero pontificio è una chiara definizione del nichilismo come mancanza di speranza: “Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo il nichilismo […]. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio” (GIOVANNI PAOLO II, Enc. Fides et ratio, 14.IX.1998, n. 46).
[4] 4. EiE, n. 9.
[5] 5. EiE, n. 10.
[6] 6. Ibidem.
[7] 7. Nell’omelia della Messa di inizio del suo pontificato (24.IV.2005) BENEDETTO XVI si serviva del medesimo paragone: “La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”. Immagine che non si discosta molto dal lamento divino ripreso da Geremia (2,13): “Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua”.
[8] 8. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amici di Dio, n. 208. A motivo dell’orientamento divulgativo e pastorale che ho voluto dare a queste pagine, risparmierò al lettore i numerosi riferimenti bibliografici che sarebbero di rigore in uno studio accademico sulla secolarità in generale. Per sviluppare le idee che seguono, oltre a invocare gli opportuni orientamenti magisteriali, mi appoggerò in modo particolare, esplicitamente o implicitamente, sugli insegnamenti di San Josemaría. Le luci e le mozioni che egli ricevette da Dio, e che diffuse fedelmente nella sua attività pastorale sin dal 1928, illuminano con una particolare profondità la chiamata universale alla santità, la vocazione dei cristiani normali, il valore delle realtà secolari, la vita ordinaria come cammino e luogo d’incontro con Dio e la missione apostolica dei fedeli laici. Tutto ciò in un contesto teologico e pastorale nel quale questi concetti – o meglio, la comprensione del loro legame radicale con la storia della salvezza – non erano dottrina comune. Non c’è dubbio che la dottrina e la prassi pastorale del Fondatore dell’Opus Dei – “non solo per la fecondità dell’esempio che ha offerto con la propria vita, ma anche per la forza singolare con cui, ponendosi in coincidenza profetica con il Concilio Vaticano II, fin dagli inizi del suo ministero cercò di rivolgere a tutti i cristiani l’appello evangelico” (Decreto pontificio sulle virtù eroiche del Servo di Dio J. Escrivá, 9.IV.1990) – si annoverano tra i contributi rilevanti con cui lo Spirito Santo ha preparato i tempi e le coscienze al provvidenziale rinnovamento che ha comportato in questa materia la dottrina del Concilio Vaticano II. Proprio per questo esse costituiscono una guida privilegiata per la loro comprensione teorica e vitale: cfr. A. DEL PORTILLO, A modo de conclusión del Simposio, in M. BELDA et al. (eds.), Santidad y mundo. Actas del Simposio Teológico de Estudio en torno a las enseñanzas del Beato Josemaría Escrivá (Roma, 12-14.X.1993), Eunsa, Pamplona 1996, pp. 277-294.
[9] 9. EiE, n. 10.
[10] 10. SAN TOMMASO spiegava in sintesi che “quando la nostra mente si occupa delle cose temporali per trovare lì il suo fine, rimane fino ad esse abbassata; invece, quando lo fa in vista della beatitudine, non è da esse trascinata verso il basso, ma elevata a un livello superiore” (S. Th., II-II, q.83, a.6 ad 3).
[11] 11. Amici di Dio, n. 208.
[12] 12. Cfr. EiE, n. 33 e passim.
[13] 13. “ ‘È tempo di speranza, e vivo di questo tesoro. Non è una bella frase, Padre – mi dici -, è una realtà’. Allora…, il mondo intero, tutti i valori umani che ti attraggono con una forza enorme – amicizia, arte, scienza, filosofia, teologia, sport, natura, cultura, anime… -, tutto questo riponilo nella speranza: nella speranza di Cristo” (JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Solco, n. 293).
[14] 14. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes [GS], n. 19.
[15] 15. SAN JOSEMARÍA illustra un aspetto dell’ambiguità, nell’ambito della vita spirituale, in Solco, n. 294, che si riferisce a “Quel fascino impalpabile e seducente del mondo…, così persistente”. Cfr. il luminoso equilibrio con cui il Concilio espone l’impostazione generale di questo tema in GS, 36 ss.
[16] 16. Cfr. GS, 36.
[17] 17. Cfr. 1 Pt 3,15.
[18] 18. Amici di Dio, n. 208.
[19] 19. “La virtù della speranza risponde all’aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al Regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna […]” (Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC], 1818).
[20] 20. Amici di Dio, n. 206.
[21] 21. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium [LG], n. 48.
[22] 22. Cfr. LG, 11; 39-41.
[23] 23. PAOLO VI, Motu proprio Sanctitas clarior, 19.III.1969, AAS 61 (1969), pag. 159. Da parte sua, GIOVANNI PAOLO II valutava così tale insegnamento: “Sull’universale vocazione alla santità ha avuto parole lucidissime il Concilio Vaticano II. Si può dire che proprio questa sia stata la consegna primaria affidata a tutti i figli e le figlie della Chiesa da un Concilio voluto per il rinnovamento evangelico della vita cristiana. Questa consegna non è una semplice esortazione morale, bensì un’insopprimibile esigenza del mistero della Chiesa” (CL, n. 16).
[24] 24. Cfr. LG, 31.
[25] 25. Così la concepì il Sinodo dei Vescovi del 1987, dedicato alla vocazione e alla missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, che accolse la sfida “di individuare le strade concrete perché la splendida ‘teoria’ sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un’autentica ‘prassi’ ecclesiale” (CL, 2).
[26] 26. GS, 43.
[27] 27. CL, 7.
[28] 28. EiE, 41.
[29] 29. “[…] Chiedendo al Signore di concederci una speranza di giorno in giorno maggiore, possederemo la contagiosa allegria di chi sa di essere figlio di Dio […]. Ottimismo, dunque: mossi dalla forza della speranza, lotteremo per cancellare la macchia viscida lasciata dai seminatori dell’odio [cfr. Cammino, n. 1] e riscopriremo il mondo da una prospettiva di gioia, perché esso è uscito bello e limpido dalle mani di Dio. Altrettanto bello potremo restituirlo a Lui” (Amici di Dio, n. 219).
[30] 30. Come ho indicato nel titolo, mi riferirò direttamente solo ai fedeli laici, senza affrontare altri aspetti o modalità della secolarità. Lo scopo delle riflessioni che qui propongo è quello di illustrare alcune delle principali dimensioni del carattere secolare della vocazione laicale, prescindendo da qualsiasi proposito di comparazione o discernimento teorico delle diverse vocazioni e condizioni o posizioni esistenti nella Chiesa. Entro queste coordinate, dato che, nel caso dei laici, la secolarità si traduce nel carattere secolare al quale fa riferimento il Concilio, per motivi di semplificazione terminologica, utilizzerò senza altre sfumature le due espressioni come sinonimi.
[31] 31. Gv 14,30.
[32] 32. Cfr. CCC, 2853.
[33] 33. Cfr. a tal proposito, J.L. ILLANES, Mondo e santità, Milano, 1991, pagg. 55 ss., e la bibliografia ivi citata.
[34] 34. LG, 31.
[35] 35. LG, 31.
[36] 36. Elaborate in origine nel mio lavoro Fieles en el mundo. La secularidad de los laicos cristianos, Pamplona 2000, cap. II.
[37] 37. Nei decenni successivi al Concilio l’espressione “chiamata universale alla santità” è entrata a far parte del linguaggio cristiano comune. Ma forse proprio per questo è necessario insistere su alcuni aspetti del suo significato, per evitare che sia distorto. Conviene centrare l’attenzione proprio sul suo carattere di chiamata, ossia, di vocazione: la chiamata universale o generale è, per ogni cristiano, una vocazione personalissima. L’espressione “chiamata universale” vuole mettere l’accento su quanto sia “nuovo” l’insegnamento conciliare rispetto alla situazione dottrinale precedente: che questa chiamata riguarda tutti i fedeli per il fatto stesso di essere tali e che nessuno resta escluso. Ciò però non vuol dire che si tratta di una chiamata generica, impersonale, senza un destinatario determinato. Al contrario, ogni chiamata di Dio, anche quando appare diretta ugualmente a molte persone, o a una collettività, è sempre una chiamata personale per ciascuno: una vocazione divina alla quale si deve rispondere personalmente. È bene sottolineare che si tratta di una vocazione in senso forte, perché anche il concetto di vocazione, col passare del tempo, ha subito un processo analogo e parallelo all’offuscamento della chiamata di tutti i cristiani alla santità: “Nel periodo anteriore al Concilio Vaticano II, il concetto di ‘vocazione’ veniva applicato prima di tutto in relazione al sacerdozio e alla vita religiosa, come se Cristo avesse rivolto al giovane il suo ‘seguimi’ evangelico solo per questi casi. Il Concilio ha allargato questa visuale” (GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai giovani, 31.III.1985, n. 9).
[38] 38. CL, 15.
[39] 39. CL, 15.
[40] 40. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, n. 20.
[41] 41. Vedi la successiva nota 74.
[42] 42. CL, 15.
[43] 43. Cfr. Gn 1,4.10.12.18.21.31.
[44] 44. Cfr. Sap 13,1-9.
[45] 45. “La creazione – dice il Catechismo della Chiesa Cattolica – è il fondamento di ‘tutti i progetti salvifici di Dio’, ‘l’inizio della storia della salvezza’ […], che culmina in Cristo. Inversamente, il Mistero di Cristo è la luce decisiva sul mistero della creazione; rivela il fine in vista del quale ‘in principio, Dio creò il cielo e la terra’ (Gn 1,1): dalle origini, Dio pensava alla gloria della nuova creazione in Cristo (cfr. Rm 8, 18-23)” (CCC, 280).
[46] 46. Col 1,15 ss.
[47] 47. 2 Cor 5,19.
[48] 48. 2 Cor 5,18.
[49] 49. Cfr. Ap 21,5.
[50] 50. Ef 1,3 ss.
[51] 51. È Gesù che passa, n. 112.
[52] 52. LG, 31.
[53] 53. CL, 15. San Josemaría spiega questa vocazione con formulazioni simili a questa: “È la fede in Cristo morto e risorto, presente in tutti i momenti della vita, che illumina le nostre coscienze stimolandoci a partecipare con tutte le forze alle vicissitudini e ai problemi della storia umana. In questa storia, che iniziò con la creazione del mondo e terminerà alla fine dei secoli, il cristiano non è un apolide. È un cittadino della città degli uomini, che ha l’anima piena del desiderio di Dio e che già in questa tappa del tempo comincia a intravedere il suo amore, riconoscendo in esso il fine a cui sono chiamati tutti coloro che vivono sulla terra” (È Gesù che passa, n. 99).
[54] 54. È pienamente attuale, in questo senso, la descrizione delle condizioni del mondo pagano che troviamo nel primo capitolo della Lettera ai Romani.
[55] 55. “Il mondo…, ‘Questo sì è affar nostro’… E lo affermi, dopo aver levato lo sguardo e la fronte al cielo, con la sicurezza del contadino che cammina da sovrano in mezzo alle proprie messi: ‘Regnare Christum volumus!’; vogliamo che Egli regni su questa terra sua!” (Solco, n. 292).
[56] 56. È Gesù che passa, n. 183.
[57] 57. Cfr. Lc 13,20-21.
[58] 58. “[…] Dobbiamo considerarci come un po’ di lievito preparato e disposto per portare il bene all’umanità intera, ricordando le parole dell’Apostolo: un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta (1 Cor 5,6), la trasforma. Abbiamo bisogno di imparare a essere noi il fermento, il lievito che modifica e trasforma la moltitudine. Forse il fermento è per natura migliore della massa? No, ma il lievito è il mezzo perché la massa venga elaborata, per diventare un alimento gradevole e sano […]. Un risultato impossibile da ottenere senza l’intervento del lievito – una piccola quantità -, che si è sciolto, scomparendo tra gli altri elementi, per compiere un lavoro efficiente, che passa inavvertito […]. Se il lievito non fermenta, marcisce. Può scomparire per ravvivare la massa, ma può anche scomparire perché si perde, lasciando un monumento all’inefficacia e all’egoismo” (Amici di Dio, nn. 257-258).
[59] 59. CL, 2.
[60] 60. Sia chiaro che non solo la seconda di esse – come abbiamo già visto -, ma anche la prima potrebbe implicare un deterioramento o una limitazione della speranza cristiana, nella misura in cui comportasse una fuga, un disprezzo e una sottovalutazione delle realtà umane (cfr. GS, 1; 34). Infatti “l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente” (GS, 39), perché “la Chiesa sa bene che nessuna realizzazione temporale s’identifica col regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo senso, anticipare la gloria del Regno, che attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma l’attesa non potrà mai essere una scusa per disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vicenda sociale, nazionale e internazionale, in quanto questa – ora soprattutto – condiziona quella. Nulla, anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo momento della storia, per rendere ‘più umana’ la vita degli uomini, sarà perduto né sarà stato vano” (GIOVANNI PAOLO II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 30.XII.1987, n. 48).
[61] 61. Cfr. CL, 23.
[62] 62. Questo non vuol dire che non esistano anche compiti e incarichi intra-ecclesiali che di solito sono propri dei fedeli laici, e altri che essi possono esercitare alcune volte anche per supplire all’assenza o alla scarsità dei ministri ordinati (cfr. Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio, 15.VIII.97, Principi teologici, 4). La Chiesa ha una vita interna con necessità, iniziative e attività alle quali tutti i fedeli collaborano, secondo la loro condizione, preparazione e possibilità: per ciò che riguarda questi incarichi, servizi e funzioni ecclesiali si può certamente dire che vi sono diversità di dedicazioni e differente disponibilità, a seconda della condizione e della vocazione di ciascuno. Può anche succedere che la Chiesa abbia bisogno che alcuni laici concentrino la loro attività – anche professionale – principalmente in compiti di questo tipo. Il disimpegno di funzioni e incarichi, la prestazione di servizi e la partecipazione in attività interne della Chiesa (liturgia, catechesi, carità, amministrazione, consigli, gruppi apostolici, di preghiera, ecc.), specialmente nella parrocchia (cfr. CL, 26), non solo non sono da considerarsi estranei ai laici, ma costituiscono un aspetto normale e gratificante della loro condizione piena di membri della Chiesa.
[63] 63. CL, 17.
[64] 64. “Solo all’interno del mistero della Chiesa come mistero di comunione – spiega ancora GIOVANNI PAOLO II – si rivela la ‘identità’ dei fedeli laici, la loro originale dignità. E solo all’interno di questa dignità si possono definire la loro vocazione e la loro missione nella Chiesa e nel mondo” (CL, 8).
[65] 65. Fra gli altri aspetti e le conseguenze della considerazione della Chiesa come comunione, è importante a questo punto metterne in rilievo uno che permette di comprendere la piena ecclesialità della vita secolare dei fedeli laici: “La comunione ecclesiale si configura […] come comunione ‘organica’, analoga a quella di un corpo vivo e operante: essa, infatti, è caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità. Grazie a questa diversità e complementarietà ogni fedele laico si trova in relazione con tutto il corpo e a esso offre il suo proprio contributo” (CL, 20).
[66] 66. Senza che questa realtà soprannaturale comporti, logicamente, che la sua attuazione nella vita pubblica prefiguri una rappresentazione ufficiale o ufficiosa della Chiesa come istituzione: “È di grande importanza, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori” (GS, 76). Più avanti farò riferimento all’azione dei laici nella vita pubblica.
[67] 67. “Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso: quello di tantissimi fedeli laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d’ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi – certo per la potenza e la grazia di Dio – della crescita del Regno di Dio nella storia” (CL, 17).
[68] 68. Il concetto di unità di vita costituisce “una categoria teologica molto propria” della dottrina spirituale del Fondatore dell’Opus Dei, “una delle dimensioni fondamentali dell’immagine del cristiano” che propone nella sua predicazione (cfr. P. RODRÍGUEZ, Josemaría Escrivá de Balaguer, “Camino”. Edición crítico-histórica, Madrid 1999; introd. al cap. 15: “Estudio” e commento del punto 411). L’Es. Ap. Christifideles laici (nn. 17 e 59) ha sottolineato la grande importanza dell’unità di vita dei fedeli laici: cfr. R. LANZETTI, L’unità di vita e la missione dei fedeli laici nell’Esortazione Apostolica “Christifideles laici”, in “Romana” 9 (1989/2), pp. 300-312. Cfr. anche, fra gli altri studi, E. REINHARDT, La legittima autonomia delle realtà temporali (3: “Santificazione del mondo e unità di vita”), in “Romana” 15 (1992/2), pagg. 331 ss.; I. DE CELAYA, Unidad de vida y plenitud cristiana, in F. OCÁRIZ – I. DE CELAYA, Vivir como hijos de Dios. Estudios sobre el Beato Josemaría Escrivá, Pamplona 1993, pagg. 93 ss.; A. ARANDA, La lógica de la unidad de vida. Identidad cristiana en una sociedad pluralista, Pamplona 2000, pagg. 121 ss.
[69] 69. GS, 43.
[70] 70. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Colloqui, n. 114.
[71] 71. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (Heautón Timorumenos, I, 1).
[72] 72. È Gesù che passa, n. 112.
[73] 73. Colloqui, n. 114. Il citato Decreto pontificio sulle virtù eroiche del Servo di Dio J. Escrivá dichiara che “grazie a una vivissima percezione del mistero del Verbo Incarnato”, il Fondatore dell’Opus Dei comprese “che, nel cuore dell’uomo rinato in Cristo, tutto il tessuto delle realtà umane si compenetra con l’economia soprannaturale, convertendosi così in luogo e mezzo di santificazione”.
[74] 74. La vocazione non è, a rigore, una semplice circostanza aggiunta o sopravvenuta nell’esistenza personale; al contrario, costituisce il fondamento più definitivo dell’esistenza della persona e della sua identità e, di conseguenza, riguarda tutta la persona, il suo stesso essere, la sua definizione. Ha spiegato GIOVANNI PAOLO II: “La vocazione di ciascuno si fonde, fino a un certo punto, col proprio essere: si può dire che vocazione e persona diventano una stessa cosa” (Incontro con i seminaristi a Porto Alegre, 5.VII.1980). Questo significa che la vocazione di ogni cristiano alla santità – la vocazione cristiana – non costituisce un aspetto parziale dell’esistenza, ma che, situandosi nell’ordine dell’essere, si estende a tutte le fasi della vita e a tutti gli aspetti della personalità e tende a coinvolgere tutto l’agire. Infatti, se la vita di ogni persona si spiega radicalmente con l’amore procedente da Dio che l’ha chiamata all’esistenza (cfr. Ef 1,4) e alla pienezza dell’amore, è evidente che corrispondere alla vocazione non è uno dei tanti compiti che richiedono la sua attenzione e le sue energie; e neppure è il compito più importante, in concorrenza con tutti gli altri: è la sua ragion d’essere e il suo unico fine, al punto che tutti i compiti e tutti gli aspetti della sua esistenza sono – debbono essere – aspetti e momenti del suo unico compito. Si capisce così che la totalità è l’unica grandezza adeguata alla vocazione: “La fede e la vocazione cristiana impregnano non una parte, ma tutta la nostra esistenza. I rapporti con Dio sono necessariamente rapporti di dedizione e assumono un senso di totalità. L’atteggiamento dell’uomo di fede è di guardare alla vita, in tutte le sue dimensioni, con una prospettiva nuova: quella che ci è data da Dio” (È Gesù che passa, n. 46).
[75] 75. CONCILIO DI CALCEDONIA, Symb., DS, 301-302.
[76] 76. Cfr. CONCILIO VATICANO II, GS, 36 ss.; Decreto Apostolicam actuositatem [AA], n. 7.
[77] 77. 1 Ts 4,13.
[78] 78. Il Concilio Vaticano II insegna, a questo proposito, che “tutte le realtà che costituiscono l’ordine temporale, cioè i beni della vita e della famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e altre simili, come pure il loro evolversi e progredire, non soltanto sono mezzi in relazione al fine ultimo dell’uomo, ma hanno anche un valore proprio, riposto in esse da Dio, sia considerate in se stesse, sia considerate come parti di tutto l’ordine temporale” (AA, 7). In base a questo, C. SOLER conclude: “[…] l’ordinamento delle realtà terrene al fine ultimo non può farsi a prescindere dal loro significato proprio; vale a dire, non bisogna considerarle come una semplice occasione per indirizzarsi al fine ultimo, non devono essere ordinate a questo fine come da fuori di se stesse, estrinsecamente, come se il loro contenuto proprio fosse per sé indifferente. Volendo fare un esempio: non bisogna considerarle come una semplice occasione per esercitare le virtù, o per ordinarle mediante l’offerta di una intenzione retta, o per dare testimonianza di Cristo, indipendentemente dal contenuto proprio della realtà o dell’attività temporale di cui si tratta. È il suo contenuto proprio, il suo significato materiale, la sua stessa dinamica, in definitiva il suo valore proprio ciò che dev’essere ordinato intrinsecamente al fine ultimo. In altre parole, si tratta di scoprire in ogni realtà il suo significato proprio e scoprire e realizzare l’ordinamento immanente di questo significato proprio al fine ultimo” (Iglesia y Estado. La incidencia del Concilio Vaticano II sobre el derecho público externo, Pamplona 1993, pag. 151). Questa è la ragione che palpita, per esempio, nelle parole del Fondatore dell’Opus Dei sul lavoro: “Non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature” (Amici di Dio, 55).
[79] 79. Su questo punto è di particolare importanza la scoperta personale del valore del proprio lavoro come realtà quotidiana santificabile e santificante: “Nella vostra attività professionale ordinaria e quotidiana, troverete il materiale – reale, solido, di buona qualità – per realizzare tutta la vita cristiana, per rendere attuale la grazia che ci viene da Cristo. In questo vostro lavoro professionale, consapevolmente svolto di fronte a Dio, verranno esercitate la fede, la speranza e la carità. Le diverse situazioni, i rapporti e i problemi che il vostro lavoro comporta, alimenteranno la vostra preghiera. L’impegno di portare a compimento il vostro dovere ordinario sarà l’occasione per sentire la Croce, che è essenziale nella vita di un cristiano. L’esperienza della vostra debolezza e gli insuccessi – immancabili in ogni sforzo umano – vi daranno più realismo, più umiltà, più comprensione per gli altri. I successi e le gioie saranno un invito alla gratitudine e vi faranno pensare che non vivete per voi stessi, ma al servizio degli altri e di Dio” (È Gesù che passa, n. 49).
[80] 80. P. O’CALLAGHAN, La virtù della speranza e l’ascetica cristiana in alcuni scritti del Beato Josemaría Escrivá, Fondatore dell’Opus Dei, in “Romana” 23 (1996/2), pagg. 262-279 (l’espressione è a pag. 268).
[81] 81. 1 Cor 10,31.
[82] 82. Cfr. EiE, n. 7 (già cit., nota 1).
[83] 83. “Mi domandi: ‘Non sembrerà artificiosa la mia naturalezza in un ambiente paganizzato o pagano, dato che tale ambiente urterà con la mia vita?’. E ti rispondo: La tua vita urterà senza dubbio con la loro; e questo contrasto, che conferma con le opere la tua fede, è appunto la naturalezza che ti chiedo” (JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Cammino, n. 380).
[84] 84. CCC, 900.
[85] 85. “Ciascuno di noi dev’essere ipse Christus. Egli è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. 1 Tm 2, 5); e noi ci uniamo a Lui per offrire, con Lui, tutte le cose al Padre. La nostra vocazione di figli di Dio, in mezzo al mondo, esige da noi non solo la ricerca della santità personale, ma ci spinge anche a percorrere tutti i cammini della terra per trasformarli in varchi, aperti in mezzo agli ostacoli, che conducono le anime al Signore; ci spinge a prendere parte, come cittadini, a tutte le attività temporali, per essere lievito (cfr. Mt 13,33) che fa fermentare tutta la massa (cfr. 1 Cor 5,6)” (È Gesù che passa, n. 120).
[86] 86.“La vocazione cristiana è per sua natura anche vocazione all’apostolato” (AA, 2).
[87] 87. È Gesù che passa, nn. 106, 122.
[88] 88. LG, 31.
[89] 89. Cfr. LG, 33.
[90] 90. Istr. Ecclesiae de mysterio, cit., Premessa; cfr. anche CL, 36 ss.
[91] 91. Cfr. LG, 33; AA, 20.
[92] 92. Cfr. GS, 43; Codice di Diritto Canonico [CIC], canoni 227, 272.
[93] 93. Colloqui, nn. 116-117.
[94] 94. È Gesù che passa, n. 8.
[95] 95. “Il Signore […] ci ha dato il mondo in eredità. E noi dobbiamo avere anima e intelligenza vigili; dobbiamo essere realisti, pur senza cadere nel disfattismo. Solo una coscienza incallita, o l’insensibilità dell’abitudine, o lo stordimento frivolo, possono permettere che si guardi il mondo senza vedere il male, l’offesa a Dio, il danno a volte irreparabile arrecato alle anime. Dobbiamo essere ottimisti, ma di un ottimismo che nasce dalla fede nel potere di Dio – e Dio non perde battaglie -, un ottimismo che non si fonda sulla sufficienza umana, su di un senso di soddisfazione sciocco e presuntuoso” (È Gesù che passa, 123).
[96] 96. Rm 8,19-22.
[97] 97. Cfr. Ef 5,10; Rm 12,2.
[98] 98. Nell’Enciclica Veritatis splendor, del 6.VIII.1993, GIOVANNI PAOLO II faceva questa riflessione: “I criteri di giudizio e di scelta assunti dagli stessi credenti si presentano spesso, nel contesto di una cultura ampiamente scristianizzata, estranei o persino contrapposti a quelli del Vangelo. Urge allora che i cristiani riscoprano la novità della loro fede e la sua forza di giudizio di fronte alla cultura dominante e invadente: ‘Se un tempo eravate tenebra – ci ammonisce l’apostolo Paolo -, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente… Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi’ (Ef 5,8-11.15-16.; cfr. 1 Ts 5,4-8)” (n. 88).
[99] 99. È Gesù che passa, n. 125.
[100] 100. Cfr. CIC, CC. 217, 229. Cfr. anche J. HERVADA, Misión laical y formación, in “La misión del laico en la Iglesia y en el mundo. VIII Simposio Internacional de Teología”, Pamplona 1987, pagg. 481-495.
[101] 101. Cfr., sulle caratteristiche di questa formazione, R. LANZETTI, L’unità di vita e la missione dei fedeli laici…, cit. (B: “La formazione dei laici all’unità di vita”, pagg. 304 ss).
[102] 102. Cfr., per uno degli aspetti di rilievo dell’attività dei laici nelle questioni temporali, CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale su alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24.XI.2002; e, fra gli altri studi, A. RODRÍGUEZ LUÑO, La formazione della coscienza in materia sociale e politica secondo gli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá, in “Romana” (1997/1), pagg. 162-181.
[103] 103. Cfr. 1 Pt 3,15.
[104] 104. Mt 7,26-27.
[105] 105. Cfr. LG, 11.
[106] 106. È Gesù che passa, n. 87.
[107] 107. Cfr. LG, 10.
[108] 108. LG, 34; cfr. LG, 10.
[109] 109. GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ecclesia de Eucharistia, 17.IV.2003, n. 5.
[110] 110. Ibidem, n. 8.
[111] 111. È Gesù che passa, nn. 87-88.
[112] 112. Nella Lettera Ap. Novo Millennio ineunte, del 6.I.2001, GIOVANNI PAOLO II si esprimeva così: “Ci si sbaglierebbe a pensare che i comuni cristiani si possano accontentare di una preghiera superficiale, incapace di riempire la loro vita. Specie di fronte alle numerose prove che il mondo d’oggi pone alla fede, essi sarebbero non solo cristiani mediocri, ma cristiani a rischio. Correrebbero, infatti, il rischio insidioso di veder progressivamente affievolita la loro fede, e magari finirebbero per cedere al fascino di surrogati” (n. 34).
[113] 113. È Gesù che passa, n. 134.
[114] 114. Gal 4,19.
[115] 115. GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, 26.VII.1989.
[116] 116. Enc. Ecclesia de Eucharistia, n. 1.
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