Perché l’Opus Dei è una prelatura personale?

Carlos José Errazuriz.

Testo pubblicato in: «Studi sulla Prelatura dell’Opus Dei. A venticinque anni dalla Costituzione apostolica Ut sit», E. Baura (a cura di), EDUSC 2008, pp. 200.

1. Impostazione della questione

Whatever may be the reason of impotence, you can surely cure it with the help of the above mentioned capsules to overcome the problem for a long time, it can get worse important relationships, confidence and a man’s self-assurance. generico cialis on line Techniques of Diagnosing Erectile Dysfunction: While there is some danger, there’s also lots of advantages discover content purchase cheap cialis to buying your prescriptions over the web. Body art is levitra 40mg mastercard http://deeprootsmag.org/2013/06/18/heat-wave/ very trendy right now and what makes them a leading choice. Sexual health is a very important aspect of prices viagra generic overall health is also necessary.
L’Opus Dei è una prelatura personale fin dalla sua erezione come tale, mediante la Costituzione apostolica Ut sit di Giovanni Paolo II, del 28 novembre del 1982 e che divenne esecutiva il 19 marzo del 1983. Gli statuti della Prelatura si aprono con questa netta affermazione «Opus Dei est Praelatura personalis(…)» (n. 1 § 1).

In questi due semplici dati possiamo trovare una prima risposta alla domanda formulata all’inizio: la costituzione della prelatura è avvenuta in virtù di una decisione dell’Autorità Suprema della Chiesa, la quale ha applicato alla realtà fondata da San Josemaría il 2 ottobre del 1928 la configurazione istituzionale di prelatura personale per l’attuazione di peculiari iniziative pastorali prevista dal Concilio Vaticano II nel Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 10. Tuttavia, l’interrogativo che qui interessa è più specifico, poiché si centra sulla forma verbale è: In che senso si può affermare che l’Opus Dei è una prelatura personale?

A questa domanda è possibile dare una risposta che apparentemente sembra risolvere il problema: l’Opus Dei è una prelatura personale dal punto di vista giuridico, ossia nell’ambito del diritto canonico. Si tratta di un’affermazione perfettamente vera ed anche ovvia. Ciò nonostante, il significato e la portata di tale affermazione sono ben lontani dall’essere ovvi.

La principale difficoltà nasce da ciò che, in generale, si intende per esistenza “giuridica”, sia civile che canonica, di una determinata realtà sociale. Un diffuso senso comune e non poche disquisizioni teoriche sul diritto coincidono nel concepire tale esistenza come qualcosa di separato dalla vita reale delle persone all’interno della società. Il diritto, in quanto sistema di norme sociali capace di imporsi in modo efficace in un dato ambito, indubbiamente struttura in certo modo la realtà sociale, regolando e orientando i comportamenti e creando istituzioni che accomunano l’attività degli individui. Questo ordine, però, si percepisce la maggior parte delle volte come estrinseco rispetto alle persone e ai loro reali rapporti interpersonali. Una cosa sono le realtà sociali di per sé e un’altra il modo in cui si presentano al sistema giuridico. Certamente si riconosce la capacità di quest’ultimo di influire sulle stesse realtà sociali; il diritto, però, non sarebbe qualcosa di inerente ad esse, ma piuttosto uno strumento destinato a cambiarle.

Se applichiamo lo schema precedente al nostro caso, è facile riconoscere come l’Opus Dei sia entrato in un nuovo inquadramento giuridico all’essere eretto prelatura personale, per cui ora gli vengono applicate le norme previste nella Chiesa per questo tipo di enti. Si può anche aggiungere senza problemi che questa nuova configurazione giuridica si adegua perfettamente alla realtà dell’Opus Dei. Tuttavia, ciò che risulta più difficile da concepire in questo schema è affermare che l’essere prelatura personale faccia riferimento proprio alla realtà dell’Opus Dei. Prima di tutto perché questa figura, come qualunque altra del mondo giuridico, non sarebbe altro che una sorta di strumento del sistema normativo. Inoltre, perché l’Opus Dei è chiaramente una realtà legata alla vita carismatica, all’impulso dello Spirito Santo nella Chiesa, e questo implica che non possa consistere in una forma giuridica coniata dall’ordinamento canonico. Infine, la miglior prova di questo approccio nascerebbe dal semplice fatto che prima della sua erezione come prelatura personale, l’Opus Dei certamente già esisteva ed era stato oggetto di successive configurazioni canoniche, chiaramente inadeguate, a differenza di quella definitiva, ma che in fondo sarebbero state così estrinseche – così “giuridiche” – come quest’ultima. Di conseguenza, l’affermazione “l’Opus Dei è una prelatura personale” non corrisponderebbe alla realtà stessa fondata da San Josemaría il 2 ottobre 1928.

In queste pagine intendo mostrare come l’affermazione, secondo cui l’Opus Dei è una prelatura personale, esprime un aspetto intrinseco ed essenziale della propria realtà carismatica. Anzitutto applicherò una visione realista del diritto al concetto di prelatura personale; e successivamente cercherò di spiegare perché tale concetto risulta essere appropriato alla realtà dell’Opus Dei.

 

2. La comprensione realista del concetto giuridico di prelatura personale  

 

Il concetto di diritto come ordine normativo estrinseco alla realtà sociale, a cui si applica e si impone coercitivamente, condiziona il modo di comprendere tutti i concetti giuridici, tanto nell’ambito civile come in quello ecclesiale. Anche quelli che chiaramente trascendono il diritto, come quello di persona, tendono ad essere considerati creazioni di un determinato ordinamento, forgiati in modo pragmatico, ossia per determinare l’ambito in cui una suddetta norma è valida. Perciò, il concetto giuridico di persona non corrisponderebbe a ciò che l’essere umano intrinsecamente è (cosa che sarebbe invece propria del concetto filosofico di persona), ma sarebbe solo il punto di riferimento umano a cui l’ordine giuridico ricorre per fissare l’oggetto delle proprie norme. Naturalmente quando si tratta di un concetto elaborato all’interno dell’ordinamento stesso, come quello di prelatura personale, l’approccio tecnico-operativo sembra essere ancor più ovvio: il concetto è una specie di artefatto convenzionale, modellato da determinate norme, che serve ad attribuire ai rapporti sociali una determinata qualifica utile al raggiungimento di determinati fini pratici.

Da questo punto di vista, la prelatura personale appare come un’etichetta giuridica, il cui uso sarebbe rilevante rispetto a certe conseguenze giuridiche: attribuzione di competenze, diritti, obblighi, sanzioni, etc. In questo modo, la concreta realtà sociale che è stata configurata come prelatura personale, come quella dell’Opus Dei, sarebbe da un punto di vista giuridico una prelatura personale solamente perché nell’ordinamento canonico gli viene attribuita tale denominazione e le sue conseguenze. In questo modo la realtà giuridica tende a trasformarsi in un semplice nome che, a sua volta, è un puro strumento con cui si attribuiscono alla realtà sociale determinati effetti di diritto positivo. Il positivismo giuridico è legato al nominalismo: in effetti, se la realtà non racchiude di per sé nulla di giuridicamente rilevante, ed il diritto proviene piuttosto dall’esterno, i concetti giuridici equivalgono a meri schemi normativi, strumentali quanto le stesse norme che li modellano e utilizzano.

Per fuggire da questo circolo vizioso è necessario chiedersi nuovamente cosa è il diritto, cosa significa che qualcosa è “giuridico”. Non è un’operazione facile, dato che il peso degli abiti mentali del positivismo penetra anche nel modo in cui si concepisce il diritto ecclesiale. Il concetto estrinseco del diritto ha profondamente marcato la cultura di molti specialisti e di molte persone comuni. Tuttavia, è davvero importante superare questa visione: basta considerare il discredito in cui cade il diritto inteso come pura forma pragmatica di ordinare la vita, e soprattutto, il fatto che tale forma possa essere messa al servizio di qualunque obiettivo sociale, dato che giuridicamente non ci sarebbero altro che interessi e poteri fattuali a sostegno di soluzioni meramente consensuali e relative.

La tradizione classica e cristiana del diritto, all’interno di una varietà di sfumature, offre una risposta che è in fondo di segno totalmente opposto. Forse, il modo più semplice ed efficace per cogliere questa risposta consiste nel presentarla dal punto di vista del rapporto tra il diritto e la giustizia. La giustizia come virtù di dare a ciascuno il proprio diritto, secondo la definizione attribuita al giurista romano Ulpiano e accolta da molti pensatori giuridici fino ad oggi, è intrinsecamente legata al diritto di ciascuno, che ne è il presupposto. A sua volta, tale diritto si delinea come l’oggetto della giustizia, di modo che diritto e giustizia sono inseparabilmente uniti. Il diritto quindi è ciò che è giusto: una realtà, un bene che appartiene a qualcuno in quanto gli è dovuto da un altro, tanto beni intrinseci alla persona (come la vita, la libertà, etc.) come beni esterni ad essa che sono oggetto di rapporti interpersonali. In questo consiste ciò che è realmente giuridico, vale a dire ciò che è realmente giusto, tanto se si fondamenta sull’essere stesso delle persone e dei loro rapporti, come se si basa sulla libertà umana che può configurare e determinare i rapporti di giustizia tra le persone e rispetto alla società.

Questo è il nucleo che permette di comprendere in modo adeguato qualunque concetto giuridico, che è sempre un concetto relativo a ciò che è giusto, e pertanto relativo ai rapporti reali su beni reali tra persone. Riprendendo l’esempio del concetto giuridico di persona, quando nelle norme o negli atti giuridici si parla di persona, si tratta della stessa realtà sostanziale di quello stesso nome che il senso comune coglie e la filosofia approfondisce. L’importanza giuridica del concetto di persona deriva dal suo rapporto con ciò che è il diritto nei rapporti interpersonali. Questo rapporto con il diritto, però, specificamente definito dall’uso giuridico del concetto di persona, è possibile e necessario proprio perché gli esseri umani sono persone, perché solo chi lo è può essere titolare di un bene che è suo e le è pertanto dovuto, e perché solo una persona è capace di dover qualcosa a qualcun altro secondo giustizia.

Anche un concetto istituzionale come quello di prelatura personale deve essere inteso sotto questa luce. Una prelatura personale, così come una diocesi o una qualunque circoscrizione ecclesiastica, non è una sovrastruttura che a dati fini organizzativi e funzionali riveste estrinsecamente la corrispondente realtà ecclesiale formata dalla vita e dall’attività dei fedeli e dei suoi pastori. Se così fosse, il fatto di essere o meno una prelatura sarebbe poco rilevante, carente di importanza e interesse salvo che per alcuni esperti, i canonisti, considerati come coloro che si occupano di aspetti tecnici, vale a dire tramiti, pratiche, atti formali, etichette esterne, etc.

Invece, ciò che si coglie mediante il concetto di prelatura personale è una realtà interpersonale che partecipa all’essere stesso della Chiesa di Cristo. E’ una comunità di fedeli, strutturata gerarchicamente intorno ad un prelato, con il cui ministero collaborano presbiteri e diaconi, e con un ambito personale e una missione specifica che la conformano come complementare alle diocesi in cui è presente. In poche parole, è una parte della Chiesa, tanto reale e viva come la Chiesa stessa.

È vero che il concetto è di natura istituzionale, vale a dire, fa direttamente riferimento alla dimensione unitaria e permanente che trascende gli individui che attualmente costituiscono una determinata prelatura personale e che si susseguono nel corso del tempo. Si tratta però di un’istituzione composta in ogni momento da fedeli reali, senza i quali si trasformerebbe in una mera possibilità. Quindi, una autentica comprensione del concetto porta ad osservare come una prelatura personale, così come una diocesi, sia un insieme reale di persone – in modo specifico, una concreta espressione della comunione gerarchica tra i fedeli -, e non un apparato burocratico né una denominazione ufficiale estrinseca.

Trattandosi di un concetto di natura giuridica, quando si parla di prelatura personale si considerano gli aspetti esterni che possono essere oggetto di rapporti di giustizia: sia i rapporti istituzionali della prelatura stessa con altri soggetti ecclesiastici e civili, sia i rapporti di giustizia esistenti all’interno dell’ambito limitato dall’istituzione: i rapporti tra i fedeli della prelatura e quelli tra questi e i loro pastori. Se il concetto di prelatura personale si intende in modo realista, questa attenzione selettiva alla dimensione esterna di giustizia – dimensione essenziale, del resto, nella Chiesa nel suo peregrinare terreno – non porta a tralasciare il fatto che la realtà ecclesiale è costituita anzitutto dalla comunione verticale ed invisibile con la Santissima Trinità e dal mistero della comunione dei santi. Non si tratta di isolare ciò che è giuridico, ma piuttosto di coglierlo con realismo nella sua specifica dimensione, proprio per poter in questo modo evidenziarne l’inserimento nel mistero soprannaturale della Chiesa e, in particolare, mostrare il legame intrinseco – in virtù della sacramentalità della Chiesa – di ciò che è giusto con la salvezza. In effetti, i diritti dei fedeli esprimono un rapporto soprattutto con i beni salvifici (prima di tutto la parola di Dio e i sacramenti), e il dovere dei ministri sacri di elargire tali beni così come il dovere di tutti i fedeli di vivere nella comunione ecclesiale sono esigenze di giustizia dove è in gioco la partecipazione personale dell’obbligato alla salvezza in Cristo.

Le considerazioni finora fatte non dimenticano quanto di storico vi sia nel concetto di prelatura personale. Si tratta di un determinato modo in cui la Chiesa si autoorganizza, con una concretezza positiva nelle leggi canoniche e nella prassi ecclesiale, anche con un determinato nome che, sebbene rifletta bene la sostanza del concetto, implica ovviamente una concretezza convenzionale. Tuttavia, niente di tutto ciò intacca o diminuisce minimamente il realismo del concetto nel senso già spiegato: ogni realtà ecclesiale si manifesta nella storia e possiede aspetti legati a ciò che è contingente. Tuttavia, è necessario ricordare che gli aspetti fondamentali dell’istituzione rispondono a delle caratteristiche essenziali della Chiesa, all’essere Chiesa: l’uguaglianza fondamentale tra i fedeli, la costituzione gerarchica, etc. Nel caso dell’Opus Dei, inoltre, è determinante un carisma, dono divino che esige fedeltà. Qui di seguito cercherò proprio di indicare perché tale fedeltà al carisma implica la prelatura personale.

 

3. La realtà ecclesiale dell’Opus Dei come prelatura personale  

Per capire perché l’Opus Dei è una prelatura personale, oltre a comprendere cosa è una prelatura personale, è necessario cogliere tale realtà nell’Opus Dei. Da un punto di vista realista la sua erezione a prelatura non è stato un rivestimento estrinseco, l’attribuzione di un nuovo aspetto. L’erezione comporta che l’Opus Dei sia realmente ed intrinsecamente una prelatura personale[1].

Fin dall’inizio si presenta una difficoltà che sembra opporsi alla visione realista della dimensione di prelatura nell’Opus Dei. In effetti, è chiaro che prima di essere configurata come tale mediante un atto pontificio, l’Opus Dei non era prelatura personale. In relazione a questo atto vi è chiaramente un prima e un dopo. Perciò potrebbe dedursi che essere prelatura sia qualcosa di estrinseco, estraneo (per quanto conveniente od opportuno esso sia) rispetto alla realtà ecclesiale di origine carismatica che si manifestò il 2 ottobre del 1928.

Non vi è alcun dubbio che l’erezione della prelatura non sia stata un semplice riconoscimento della realtà già esistente da parte dell’autorità papale. Qualcosa di nuovo è venuto ad integrare questa realtà. I fedeli incorporati all’Opus Dei iniziarono a essere fedeli di una prelatura, con i corrispondenti vincoli di comunione tra di loro e con il prelato; chi era a capo dell’Opus Dei nel 1982, Mons. Álvaro del Portillo, passò ad essere prelato di una prelatura personale, con la potestà gerarchica che le è propria; il clero dell’Opus Dei iniziò a costituire il presbiterio della prelatura. Tutto questo comporta una novità rispetto alla situazione anteriore.

Tuttavia, ciò non significa che dal 1928 l’Opus Dei fosse una realtà essenzialmente distinta dalla prelatura che venne eretta nel 1982. Questo punto richiede una maggiore attenzione, poiché le successive approvazioni dell’Opus Dei (come pia unione, società di vita comune senza voti e istituto secolare) ne inquadravano la realtà all’interno di istituzioni ecclesiali di natura associativa, quelle che i fedeli possono costituire per raggiungere fini ecclesiali comuni. L’inadeguatezza di queste configurazioni canoniche alla realtà carismatica dell’Opus Dei rispondeva anche ad altri motivi estremamente importanti, soprattutto per il fatto che la secolarità dei suoi fedeli non rientra in nessun modo nell’ambito dello stato di perfezione o di vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici. Tuttavia, ora ciò che interessa è l’altro aspetto menzionato, ugualmente essenziale, riguardante proprio la presunta natura associativa dell’Opus Dei.

La considerazione storica dell’Opus Dei aiuta a penetrarne la vera natura. Mi limito ad alcuni dati essenziali, che ritengo siano specialmente significativi[2].

Prima di tutto, conviene osservare che la vocazione di San Josemaría nella Chiesa si manifesta come vocazione al sacerdozio, con un orizzonte specifico che si svela solo quando più tardi vede l’Opus Dei[3]. Come risulta evidente a partire dal 1928, l’orizzonte vocazionale del Fondatore è in se stesso essenzialmente sacerdotale, ossia si iscrive nell’ambito del sacerdozio ministeriale o gerarchico. San Josemaría fu chiamato al sacerdozio proprio per fondare l’Opus Dei, e fondò l’Opus Dei proprio in quanto sacerdote. Trattandosi di un’istituzione dedita alla santificazione e all’apostolato dei fedeli laici, di cui evidenzia il comune sacerdozio come battezzati e la loro condizione secolare, potrebbe sembrare paradossale il fatto che il Fondatore fosse un sacerdote. La soluzione più radicale di questo paradosso nasce dalla considerazione che nella Chiesa è essenziale tanto la fondamentale uguaglianza tra tutti i fedeli come la sua costituzione gerarchica. Il Signore volle suscitare un sacerdote per i laici che avrebbe chiamato all’Opus Dei. A questo sacerdote affidava un ministero veramente sacerdotale di unità e capitalità in questa famiglia soprannaturale. Si trattava di un ministero destinato a protrarsi nel tempo, in modo da passare ai successori del Fondatore. In questo senso è molto significativo il fatto che si perpetuasse anche il modo familiare in cui si chiama colui che è a capo dell’Opus Dei: “Padre”.

Bisogna anche riflettere sul fatto che il 2 ottobre del 1928 San Josemaría fu l’unico a vedere l’Opus Dei[4]. Egli lo considerò sempre fondato quel giorno, sebbene poi vi siano state complementi ed approfondimenti di una realtà già essenzialmente completa. In questo “vedere” – era il verbo che utilizzava – vi era la realtà personale di coloro che sarebbero arrivati. Queste persone non erano ancora presenti, e ciò nonostante l’Opus Dei già c’era. Non si trattava di qualcosa che avrebbero fatto tra tutti, bensì di un incarico divino che riceveva il Fondatore. Occorreva certamente il concorso della libertà di coloro che sarebbero venuti, ma l’Opus Dei non sarebbe stato il frutto dell’unione delle loro volontà, semplicemente perché la nuova realtà si situava fin dall’inizio in una dimensione – quella della struttura comunitario-gerarchica della Chiesa – che sfugge al potere dei fedeli nell’ambito associativo. L’Opus Dei non nacque quando un altro fedele si aggiunse al Fondatore, ma quando Dio lo suscitò in San Josemaría e gli chiarì il significato specifico che avrebbe dovuto assumere il suo sacerdozio gerarchico nella Chiesa, che, come in ogni fedele ordinato, supponeva il sacerdozio comune in quanto battezzato. L’assenza stessa di altri fedeli nel momento fondazionale contribuisce a mettere in luce la natura non associativa della fondazione.

Fin dall’inizio San Josemaría vide che nell’Opus Dei ci sarebbero stati altri sacerdoti oltre a lui. Più avanti comprese che questi sacerdoti dovevano provenire dai fedeli laici dell’Opus Dei. Entrambi questi aspetti sono impregnati di significato ai fini del nostro tema. Da una parte, la pluralità di sacerdoti nell’Opus Dei si rendeva necessaria per una finalità ministeriale ben determinata: l’attenzione pastorale dei fedeli dell’Opus Dei e di tutti coloro che si avvicinano ai suoi apostolati, ossia la collaborazione alla missione gerarchica stessa che il Fondatore già realizzava fin dall’inizio. Il rapporto ministeriale-gerarchico con i fedeli laici si conferma quindi come una caratteristica strutturale essenziale della realtà dell’Opus Dei[5]. Il fatto che i sacerdoti dediti allo specifico compito pastorale dell’Opus Dei, quantunque il carisma si diffondesse ad altri sacerdoti incardinati nella diocesi, provenissero dai laici stessi dell’Opus Dei, mostra in modo particolarmente chiaro ciò che risulta essere naturale nella Chiesa, ossia che sorgano vocazioni sacerdotali all’interno della stessa comunità di fedeli a cui si dedicherà il ministero.

Al tempo stesso, come parte del carisma, il Fondatore fu sempre profondamente cosciente del fatto che la vocazione all’Opus Dei era, nella sua essenza, la stessa per lui e i suoi figli, per i sacerdoti e per i laici, per gli uomini e per le donne, per i celibi e per gli sposati. Questa consapevolezza dell’uguaglianza fondamentale non si può spiegare a partire dalla varietà di funzioni ecclesiali e dal grado di disponibilità nei confronti delle attività istituzionali. Si può capire solo alla luce dell’uguale dignità battesimale di tutti i fedeli, che è ciò che si mette in gioco nell’Opus Dei. Si tratta di una determinazione vocazionale e di appartenenza ecclesiale che ha proprio il fine di confermare e rafforzare il posto di ciascuno nella Chiesa e nel mondo. Uguaglianza di appartenenza e diversità gerarchica tra i fedeli sono due caratteristiche che nell’Opus Dei hanno convissuto fin dall’inizio con la semplice armonia che possiedono nella Chiesa, configurando inoltre l’essenza stessa dell’istituzione e del suo patrimonio carismatico.

Dall’altra parte, l’attività istituzionale dell’Opus Dei riguarda esclusivamente l’ambito dei beni salvifici, prima di tutto la parola di Dio e i sacramenti: San Josemaría amava presentare questa attività come una “grande catechesi”[6]. Perciò l’attività istituzionale si distingue nettamente da quella che, a titolo personale o in collaborazione con altri, realizzano i fedeli dell’Opus Dei. Questa distinzione vale anche per iniziative educative, di salute, di promozione sociale, ecc., che promuovono insieme ad altre persone, quando l’Opus Dei presta assistenza pastorale e a volte assume anche istituzionalmente la garanzia ecclesiale della conformità di tali iniziative con il Vangelo. La distinzione tra attività istituzionale e attività personale è fondamentale per capire la natura esclusivamente ecclesiale dell’Opus Dei in quanto istituzione, soprattutto perché è in gioco la legittima libertà di cui godono i fedeli dell’Opus Dei in ambito temporale, allo stesso modo di qualsiasi altro cattolico. Solo a partire dalla libertà e dalla responsabilità personale è possibile che si impegnino nella più delicata fedeltà alla dottrina della Chiesa, cercando di santificare tutte le loro attività nel mondo, trasformandole in cammino di apostolato personale e di vera cristianizzazione.

Le successive approvazioni canoniche vennero incontro alle necessità istituzionali che comportava lo sviluppo dell’Opus Dei (dapprima in ambito diocesano e poi a livello internazionale, e tenendo anche conto della questione dell’appartenenza dei sacerdoti), ma nessuna di esse arrivò a cogliere la realtà dell’Opus Dei. Aldilà delle grandi differenze esistenti tra di loro, vi è una caratteristica molto significativa che le unisce: pia unione, società di vita comune senza voti, e istituto secolare sono concetti giuridici che raccolgono realtà ecclesiali di natura associativa. Da ciò deriva la profonda incapacità di riflettere cosa è l’Opus Dei come una comunità di fedeli che si conforma intrinsecamente secondo la struttura gerarchica della Chiesa stessa.

Ciò che rendeva realmente difficile la comprensione di questa natura comunitario-gerarchica, non associativa, era il fatto che l’Opus Dei sorgesse da un carisma, quello ricevuto da San Josemaría e da coloro che sarebbero arrivati dopo, e che tale carisma implicasse una vocazione personale essenzialmente spirituale e apostolica dei rispettivi fedeli (alcuni – tra cui i primi – con il carisma del celibato apostolico). Entrambi questi aspetti venivano percepiti, in base ad una lunga esperienza ecclesiale, come propri, per antonomasia, della vita religiosa, di modo che le stesse vocazioni secolari tendevano ad essere concepite per analogia a quelle dei religiosi. Certamente la secolarità dei fedeli dell’Opus Dei non poteva essere colta mediante tale analogia, però, ancor più profondamente, non si poteva capire il fatto che costituissero una comunità che non si univa per una specifica iniziativa di natura associativa, ma in virtù di concreti vincoli di comunione ecclesiale tra di loro. Come in ogni comunità gerarchica di fedeli, quei vincoli comportavano essenzialmente una struttura gerarchica, con un pastore che è a capo e con altri pastori che collaborano con lui.

Non si poteva cogliere in modo adeguato neanche il fatto che una stessa istituzione di origine carismatica e vocazionale potesse includere tanto uomini quanto donne. Inoltre, il fatto che vi fosse separazione nella vita e apostolato dei fedeli dell’Opus Dei di uno e dell’altro sesso, poteva essere falsato con le categorie associative, in modo da far pensare che si trattasse in realtà di due istituzioni accidentalmente unite. La realtà è che ci fu sempre una profonda unità tra gli uomini e donne dell’Opus Dei, appartenenti ad una stessa realtà ecclesiale di natura comunitario-gerarchica.

Anche i passi canonici relativi all’ascrizione di sacerdoti e alla potestà attribuita a colui che era a capo dell’Opus Dei, si situavano in un contesto associativo, e non comunitario-gerarchico. Senza dubbio rispondevano alle esigenze del carisma, ma in modo inadeguato: la realtà profondamente unitaria dell’Opus Dei continuava ad essere rispecchiata in modo molto imperfetto, poiché in fondo veniva concepita strutturalmente come una istituzione associativa. Sacerdoti e laici apparivano legati ad una stessa istituzione carismatica, ma non essenzialmente legati tra di loro. Perciò, sia la fondamentale uguaglianza tra di loro in quanto fedeli sia la loro mutua relazione, venivano inserite in una cornice che non coglieva l’essenza stessa dell’istituzione. Inoltre si riteneva che la potestà di colui che ne era a capo fosse legata all’aspetto associativo clericale, di modo che chi la esercitava era un membro dell’associazione, non il titolare di una potestà gerarchica in una comunità di fedeli. Per questo non si spiegava neanche la differenza tra i sacerdoti provenienti dai laici dell’Opus Dei e che dedicavano il loro ministero all’Opus Dei, e i sacerdoti incardinati nelle diocesi che ricevono la stessa e unica vocazione all’Opus Dei per santificarsi mediante il loro ministero nella diocesi stessa, senza incorporarsi pertanto alla prelatura né al suo presbiterio.

Con l’erezione a prelatura personale il processo di riconoscimento e di risposta da parte della Chiesa in quanto istituzione alle esigenze della realtà carismatica è giunto al termine. Non è avvenuta una mutazione genetica, bensì il pieno sviluppo dell’organismo nato nel 1928 e che si era diffuso per tutti i continenti. Si è realizzato ciò che chiedeva lo stesso patrimonio carismatico dell’Opus Dei, un patrimonio che, come è proprio dell’essere stesso della Chiesa, non è solamente spirituale ma comporta ed esige anche espressioni esterne, inseparabili da tale spirito.

Inoltre, nell’Opus Dei si è verificato un fatto particolarmente significativo per il nostro tema: il Fondatore possedeva una formazione e una mentalità giuridica, e in modo speciale canonica, decisamente viva e penetrante. Sulla base degli studi di diritto che portò a termine assecondando un consiglio di suo padre che aveva accolto proprio dopo aver scoperto la vocazione sacerdotale, San Josemaría mise le proprie doti professionali di giurista al servizio della missione fondazionale che Dio gli affidò. Così si santificò e contribuì al bene della Chiesa anche come giurista. Il Signore gli concedette abbondanti luci lungo tutto il percorso giuridico dell’Opus Dei. Risalta in modo particolare la chiaroveggenza con cui colse immediatamente il nucleo della soluzione giuridica definitiva, per cui tanto lavorò e che offrì di non vedere realizzata durante la sua esistenza terrena. Il suo successore, Mons. Álvaro del Portillo, in una lettera in occasione dell’erezione della prelatura,volle iniziare la narrazione dell’itinerario giuridico con un aneddoto del 1936 che testimonia la consapevolezza che ebbe molto presto il Fondatore sulla necessità di una giurisdizione ecclesiastica di carattere personale[7]. La prelatura dell’Opus Dei fu qualcosa che San Josemaría desiderò e cercò con tutta la sua anima per compiere l’incarico divino del 2 ottobre del 1928, proprio perché si trovava nelle viscere stesse di questo incarico.

Forse il modo migliore per comprendere questo processo giuridico è pensare all’implantatio della Chiesa in un nuovo territorio o ambito sociale a cui giunge la parola di Dio, i sacramenti e gli altri beni della salvezza. Ciò che risulta essere del tutto nuovo è che nel caso dell’Opus Dei è impiantata una realtà ecclesiale gerarchicamente strutturata grazie ad una iniziativa carismatica. Inoltre, si tratta di una realtà ecclesiale che in un nessun modo pretende di sostituire le diocesi, ma vive e opera in esse, con una legittima autonomia il cui fine esclusivo è quello di servire loro e tutta la Chiesa. Non aspira affatto a voler diventare una Chiesa locale, poiché il proprio carisma porta a confermare i suoi fedeli come fedeli delle Chiese locali a cui appartengono. Tuttavia, aldilà di queste differenze esiste un fenomeno analogo: l’erezione di qualunque circoscrizione ecclesiastica opera in una realtà preesistente, di natura comunitario-gerarchica, che ne chiede l’erezione. Questo è quanto avvenuto con l’Opus Dei nel 1928. Quindi l’attribuzione del concetto giuridico di prelatura personale è del tutto reale: l’Opus Dei è una prelatura personale.

 

[1] Per una visione realista della dimensione giuridica della prelatura dell’Opus Dei, cfr. J. Hervada, Aspetti della struttura giuridica dell’Opus Dei, in Il diritto ecclesiastico, luglio-dicembre 1986, 3-4, pp. 410-430. Per un esame del dibattito della dottrina canonica sulle prelature personali da un punto di vista realista, cfr. E. Baura, Le attuali riflessioni della canonistica sulle prelature personali. Suggerimento per un approfondimento realistico, in AA.VV., Le prelature personali nella normativa e nella vita della Chiesa, Cedam, Padova 2002, pp. 15-53.

Certamente l’Opus Dei non è soltanto prelatura personale, poiché trascende la sua configurazione istituzionale come prelatura. Vi è anzitutto un’altra realtà istituzionale che è anche Opus Dei a pieno titolo: la Società Sacerdotale della Santa Croce, quale associazione di chierici inseparabile dalla prelatura. Più radicalmente, l’intera vita dei fedeli della prelatura deve essere Opus Dei, e non solo i loro rapporti con l’Opus Dei in quanto istituzione (i quali del resto sono in funzione di quella vita). Inoltre, la sua portata apostolica oltrepassa l’ambito delle attività connesse con la prelatura, ed arriva in diversi modi a molte persone ed attività ecclesiali. Infine, anche se la prelatura è di questo mondo, l’Opus Dei possiede una chiara dimensione escatologica.

[2] Per un approfondimento di questi dati essenziali sono estremamente rilevanti la biografia di A. Vázquez de Prada, Il Fondatore dell’Opus Dei, 3 vol., trad. it., Leonardo International, Milano 1999-2004; e nell’ambito specificamente giuridico, A. de Fuenmayor– V. Gómez-Iglesias – J.L. Illanes, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, trad. it., Giuffrè, Milano 1991.

[3] Riguardo a questo aspetto, cfr. A. Aranda, Sacerdote de Jesucristo. Sobre la misión eclesial del Beato Josemaría Escrivá Fundador del Opus Dei, in Romana. Boletín de la Prelatura de la Santa Cruz y Opus Dei, 17 (1993), pp. 307-327.

[4] Cfr. J.L. Illanes, Dos de octubre de 1928: alcance y significado de una fecha, en AA.VV., Monseñor Josemaría Escrivá de Balaguer y el Opus Dei, EUNSA, Pamplona 1985, pp. 65-107.

[5] A questo riguardo, cfr. il capitolo di P. Rodríguez, L’Opus Dei nella sua realtà ecclesiologica,in P. Rodríguez – F. Ocáriz – J.L. Illanes, L’Opus Dei nella Chiesa. Ecclesiologia, vocazione, secolarità, trad, it., Ed. Piemme, Casale Monferrato 1993, pp. 15-138.

[6] Cfr. intervista al giornale ABC di Madrid, 24-III-1971.

[7] Dinanzi a due lapidi funerarie di prelati che avevano avuto una peculiare e vasta giurisdizione d’indole secolare e personale, nella chiesa di Santa Isabel a Madrid, San Josemaría disse a un figlio suo, Pedro Casciaro: «La futura soluzione giuridica dell’Opera è lì». Cfr. il testo della Lettera del 28-XI-1982 in A. del Portillo, Rendere amabile la verità. Raccolta di scritti di Mons. Alvaro del Portillo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995, pp. 64-65.