Prime osservazioni sulla Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio dei Papa Francesco con la quale vengono modificati i canoni 295-296 relativi alle prelature personali

L’8 agosto scorso, appena rientrato a Roma dopo la celebrazione della Giornata mondiale della Gioventù a Lisbona, il Santo Padre ha emanato un Motu Proprio con cui ha introdotto un’incisiva modifica al Codice di Diritto Canonico promulgato da San Giovanni Paolo II nel 1983, questa volta in materia di prelature personali. Tale novità legislativa solleva, sotto il profilo squisitamente giuridico, non pochi interrogativi, e di un certo rilievo: sui quali vale la pena soffermarsi, sia pure per cenni e senza pretesa di esaustività.

Appare anzitutto naturale che, dinanzi al varo di una normativa, il giurista focalizzi la sua lente sugli aspetti formali della stessa. A questo proposito, attirano subito l’attenzione due peculiari modalità procedurali, di per sé eccezionali sebbene usate con frequenza in questo pontificato. La prima riguarda la promulgazione del Motu Proprio, avvenuta attraverso la pubblicazione sul quotidiano L’Osservatore Romano: modalità in se stessa valida benché diversa da quella prevista come consueta dal Codice. La seconda consiste nella decisione dell’immediata entrata in vigore, senza prevedere alcuna vacatio legis,neppur minima. Una siffatta e pressante urgenza può essere compresa unicamente se si tiene conto che i canoni novellati vanno a interessare di fatto l’unica prelatura personale sussistente, quella dell’Opus Dei, la quale attualmente, in seguito al Motu Proprio Ad charisma tuendumdel 14 luglio 2022, sta provvedendo alla modifica degli statuti.

E qui viene spontaneo domandarsi se proprio tale urgenza non abbia condotto a un abbandono, forse un po’ troppo precipitoso e avventato, dei consueti canali normogenetici. Essi non rappresentano un omaggio a un vuoto formalismo, ma sono garanzie della perfezione tecnica della legge, nonché strumenti attraverso cui si può esprimere una vera sinodalità: sempre ferma restando la libertà del romano Pontefice di stabilire forme e contenuto delle norme al momento di esercitare il suo ministero petrino. Infatti, se si osserva che la novità sostanziale consiste nell’assimilare le prelature personali alle associazioni clericali di diritto pontificio con capacità di incardinare e, di conseguenza, nel considerare il prelato come un ʻmoderatoreʼ con le facoltà di Ordinario, si constata come il legislatore universale si sia fatto guidare e abbia aderito a un’interpretazione degli originari canoni sulle prelature personali che dalla dottrina nettamente maggioritaria è stata rifiutata, del tutto fondatamente e con molteplici argomentazioni. Tale discutibile impostazione forse difficilmente si sarebbe adottata se fosse stata seguita la prassi normale nella produzione delle leggi, e segnatamente nella modificazione dei canoni del Codice: ascoltando esperti e raccogliendo pareri diversificati e ragionati.

A prescindere dalle discussioni dottrinali in materia, sulle quali in questa sede non si può indugiare[1], in qualsiasi canonista con dimestichezza della tradizionale terminologia adoperata nella Chiesa non può non destare meraviglia che una ʻprelaturaʼ venga assimilata a un’associazione. Il vocabolo prelatura nel diritto canonico identifica l’ambito di giurisdizione di un prelato, e il titolo di prelato, a parte quello meramente onorifico, allude palesemente a un’autorità giurisdizionale. Le prelature nella codificazione del 1917 erano le cosiddette prelature nullius dioecesis, vale a dire unità giurisdizionali maggiori, oggi denominate prelature territoriali, assimilate alle diocesi. Non per nulla il decreto conciliare Presbyterorum ordinis n. 10, richiamato in apertura dello stesso Motu Proprio ora commentato, parlava appunto di «peculiares dioeceses vel praelaturae personales»; non è francamente immaginabile che i Padri conciliari, i quali di prelature conoscevano solo quelle territoriali, allorquando approvarono la possibilità di creare diocesi peculiari o prelature personali, stessero pensando a enti simili alle ʻassociazioniʼ.

Peraltro, come è stato ampiamente osservato in dottrina, lo stesso aggettivo personale sta a indicare che la prelatura si definisce tramite la personalità: cioè che il popolo cristiano affidato al prelato è circoscritto mediante un criterio personale anziché attraverso quello abituale della territorialità. L’assimilazione a un’associazione clericale porterebbe a pensare che la prelatura sia costituita solo da chierici: ma, se così fosse, non si comprenderebbe in alcun modo a cosa si riferisce la qualificazione personale. Una contraddizione di arduo scioglimento.

Certo, nihil simile est idem, e le ʻprelatureʼ personali scaturenti dalla revisione codiciale non ʻsarebberoʼ vere e proprie associazioni clericali, ma ad esse solo assimilate. Tuttavia, il giurista deve cogliere il fondamento dell’analogia giuridica per poter delimitare con precisione le sue conseguenze. A sostegno della nuova normativa sulle prelature personali il Motu Proprio in questione cita il Concilio Vaticano II, facendo notare che esso tratta di questa figura a proposito della «distribuzione dei presbiteri, nell’ambito della sollecitudine per tutta la Chiesa», il che sembrerebbe giustificare l’assimilazione. Senonché a nessuno sfugge come distribuire il clero altro non sia che sviluppare l’organizzazione pastorale, compito precipuo ed esclusivo della gerarchia ecclesiastica, anziché delle iniziative associative. Insomma, anche solo in base a queste considerazioni, non è agevole comprendere la ratio dell’assimilazione di due figure talmente eterogenee.

Trattandosi di un’assimilazione, poi, essa ammette una gradualità: ma l’accostamento generico alle associazioni clericali rende problematica la posizione dei laici che «operibus apostolicis praelaturae personalis sese dedicare possunt» (can. 296), cooperando ʻorganicamenteʼ. E proprio qui emerge la problematicità più evidente del recente Motu Proprio: giacché nell’applicarlo all’unica prelatura personale esistente finora, quella dell’Opus Dei, non si potrà non tenere conto della sua realtà sociale, composta da circa 90.000 fedeli laici sparsi nei cinque Continenti, assistiti da duemila sacerdoti, nonché della sua missione, consistente proprio nel diffondere la santità nel mondo. Neppure si potrà dimenticare che per tutelare questo carisma, San Giovanni Paolo II, come ricorda Papa Francesco nel Motu Proprio Ad charisma tuendum, aveva eretto la prelatura personale dell’Opus Dei, «organicamente strutturata, cioè dei sacerdoti e dei fedeli laici, uomini e donne, con a capo il proprio Prelato», poiché «l’appartenenza dei fedeli laici sia alla propria Chiesa particolare sia alla Prelatura, alla quale sono incorporati, fa sì che la missione peculiare della Prelatura confluisca nell’impegno evangelizzatore di ogni Chiesa particolare, come previde il Concilio Vaticano II nell’auspicare la figura delle Prelature personali» (San Giovanni Paolo II, Discorso del 17 marzo 2001).

Insomma, proprio nel caso dell’unica prelatura personale eretta, il doveroso e ineludibile rispetto dell’autentico carisma, dell’effettiva realtà sociale e dei diritti dei fedeli coinvolti richiede che la novità dell’assimilazione rimanga, per ora, come una mera dichiarazione di principio. Sarà poi il futuro a chiarire se la recezione della volontà del Concilio Vaticano II indirizzata a riorganizzare l’assetto pastorale attraverso «peculiares dioeceses vel praelaturae personales» per favorire «peculiari opere pastorali» (Presbyterorum ordinis, n. 10), compresa quella di dare una risposta valida e pienamente aderente al carisma dell’Opus Dei, non dovrà cercarsi in soluzioni extracodiciali. Ovvero, se non si debba auspicabilmente attendere una riflessione giuridica più serena, meditata e condivisa, in cui distesi ritmi normogenetici consentano quel confronto sinodale previo alla promulgazione delle norme atto ad assicurarne la conformità a giustizia: inverando l’aspirazione – e la capacità – del diritto canonico di rispondere adeguatamente e fruttuosamente alle istanze pastorali della Chiesa di ogni tempo.

Prof. Geraldina Boni
Ordinaria di diritto canonico e diritto ecclesiastico all’Università 
Alma Mater Studiorum di Bologna

Publicato nella web del Centro Studi Rosario Livatino


[1] Per riferimenti bibliografici mi permetto di rinviare a Geraldina Boni, Suggestioni nascenti dalla possibile erezione di una nuova prelatura personale per la Fraternità Sacerdotale San Pio X, in Diritto e religioni, XII (2017), n. 2, pp. 17-108.